rn Ma, allo stesso modo, riconoscere questo problema e risolverlo con una legge ordinaria “al sapor del privilegio” vuol dire risolverlo nel modo sbagliato, e finire con l’avvelenare ulteriormente le acque: scriveva Nietzsche che il buon fine, se giustifica i cattivi mezzi, rivela la sua fatale affinità genetica con quei mezzi (leggi: non è un buon fine, ma un cattivo pretesto).
Qui non pretendiamo di dare una risposta; soltanto, proporre due riflessioni, diciamo così, per la pausa estiva.
La prima: l’uno e l’altro degli schieramenti non mancano di frecce al proprio arco, potendosi (quasi) altrettanto ragionevolmente sostenere un argomento ed il suo contrario (questo risulta almeno dalla constatazione degli opposti pareri che gli stessi giuristi − ché anche il presidente della Repubblica ha consiglieri giuridici − dànno della legge). La questione può dunque essere risolta solo nell’ambito d’un discorso, in cui ognuna delle parti faccia concessioni alle ragioni dell’altra, perché non c’è una verità incontrovertibile e l’unica soluzione è il bilanciamento di esigenze opposte. Proprio il riferimento al bilanciamento di interessi ci orienta verso la seconda osservazione.
La reale questione sottesa a questa controversa scelta del legislatore è, come ormai tutti sanno o possono vedere, l’invadenza (vera o supposta, qui non importa stabilirlo) della magistratura nei confronti di un altro potere dello Stato, democraticamente legittimato, per via dell’ostinazione nel perseguire selettivamente talune personalità politiche (una in particolare).
Questo problema è reale (reale, cioè, almeno nella percezione che se ne ha a livello politico: il che basta a legittimare l’adozione di strumenti per affrontarlo); non riconoscerlo vuol dire aver le fette di salame davanti agli occhi, e − cosa grave − rifiutare l’impegno a trovare soluzioni.