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C’è un pudore terreo nei commenti − spesso, anche in commenti durissimi − sulla non spiegata morte di un tossicodipendente in “stato di restrizione della libertà personale” (come si potrebbe dire con anòdino linguaggio burocratico). Il pudore sgomento di chi spera, nel commentare la vicenda, che ciò che si potrebbe pensare come accaduto non lo sia realmente.

C’è però una parola che ronza nella testa, che emerge talvolta (di sfuggita, un po’ sbrigativamente, commista ad altre, non sottolineata), piú spesso evitata, sottaciuta, forse intesa come politicamente scorretta, troppo forte anche per l’agone politico.

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Questa parola io la vorrei dire ad alta voce.
 
Questa parola è: tortura.

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Non si sa, ma potrebbe essere accaduto: ciò che si è veduto potrebbe – sottolineo il condizionale ­ essere l’esito delle condotte così definite, appunto come tortura, da fondamentali testi normativi internazionali. Da ultimo, dallo Statuto della Corte criminale internazionale (noto come «Statuto di Roma»): tortura è l’inflizione di gravi dolori e sofferenze (ulteriori rispetto al semplice contenuto della sanzione cui deve essere legittimamente sottoposto), sia fisiche sia psicologiche, ad un soggetto detenuto o comunque che si trovi sotto il controllo di colui che lo maltratta.

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Altro che «antica mentalità», altro che «maltrattamenti», «pestaggio» od altre parole da mammolette.
Tortura.

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Non sappiamo se si accerterà che ciò possa essere davvero accaduto. Ma se cosí fosse, lo Stato non ha garantito una delle ragioni portanti e imprescindibili della sua esistenza.

Se ne traggano le conseguenze: fare gli struzzi su questo significherebbe chiudere l’occhio sull’erosione − con volontà diretta, o per collusione, o per ignavia − di pilastri portanti dell’intero edificio dello Stato di diritto. Non sarebbe tollerabile neppure un’azione debole per «poco di vigore». Perché chiunque di noi sarà, allora, veramente piú in pericolo.

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