Se si considera come sia rovinosamente fallita ad oggi l’aspettativa della società politica globalizzata, secondo i paradigmi troppo spesso retorici dei diritti umani, del multiculturalismo e della democrazia, viene spontaneo porsi la domanda se questa logica di una “cooperazione senza sovranità”, di una società politica reticolare e priva del modello dello Stato sia in grado di governare il processo di globalizzazione che – ricordiamolo bene – è processo prima ancora che integrativo, disintegrativo.
Se le cose stanno in questi termini – ed è ragionevolmente difficile negarlo – è più che comprensibile la necessità doverosa di acribia nell’affrontare il delicatissimo tema giuridico-istituzionale della riforma dello status di cittadinanza, che in tempi recenti è stato posto in discussione da autorevoli rappresentanti della politica italiana, dal Presidente Napolitano al Ministro per la Cooperazione Riccardi.
Alcune brevi osservazioni.
La cittadinanza è uno status, non un mero diritto, cioè non è una semplice facoltà di cui può disporre il singolo indivduo. Infatti con l’acquisto della cittadinanza la persona entra a far parte del “popolo” italiano, come afferma uno dei più celebri costituzionalisti italiani, il Barile, ed è chiamata a precisi doveri nei confronti della Stato, tra cui la fedeltà ai valori della Repubblica (art.53) ed il concorso alla spesa pubblica (art.54)
Ciò significa che la giurisprudenza stessa dei padri della Costituzione repubblicana richiede, ai fini della qualificazione della cittadinanza, una complessità di valori identitari, etici, culturali e linguistici – in altri termini pre-politici – che non sono viceversa oggetto di considerazione con riferimento ad un semplice diritto privato.
La cittadinanza va ben oltre un mero fondamentale diritto privato come può essere la proprietà, in quanto è la base,il pilastro metagiuridico, quindi anche culturale e filosofico che giustifica il concetto stesso di Stato e popolo. Prova ne sia che la dottrina del diritto costituzionale considera cittadini anche le persone giuridiche e le associazioni che hanno la “nazionalità” italiana, ovvero i corpi intermedi della società italiana.
Questo punto apre un’altra finestra, in quanto introduce il concetto di nazione, che è sociologico, a base identitaria, linguistica, culturale.
Queste brevi riflessioni per rammentare che i diritti sono sempre riconducibili ad un popolo – cioè ad una società civile omogeneamente e storicamente organizzata – e questo ad un territorio, (elementi fondamentali, assieme alla sovranità, dello Stato, secondo il diritto costituzionale).
Dunque ogni ipotesi di ridefinizione della cittadinanza non si risolve semplicisticamente con l’abbreviazione del periodo di permanenza sul territorio italiano del cittadino extracomnitario, ovvero con la introduzione dello jus soli in luogo dello jus sanguinis a favore dei figli di cittadini extracomunitari nati in territorio italiano (si tratta di istituti che hanno pari dignità razionale) ma richiede una ben altra congegnata riflessione costituzionale e ben altra proposta culturale che sappia considerare adeguatamente i valori comuni identitari di nazione, popolo, lingua e religioni come elementi di virtuosa e armoniosa crescita del bene comune nel quadro policentrico di un universo politico in profonda incerta mutazione.
Alcuni tra i principali studiosi di relazioni internazionali e società politiche, da R.Robertson a Susan Strange, sostenitori della teoria del declino della sovranità degli Stati nazionali successivamente al crollo del totalitarismo comunista e della formazione di una “società globale”, transanzionale ed immune da connotazioni territoriali si sono ricreduti in quest’avvio di millennio, riconoscendo la profonda valenza delle identità culturali e territoriali come fattori di stabilità ed inclusione sociale.
Lo stesso Premio Nobel Amartya Sen si è espresso in tal senso, paventando i tremendi rischi di una società “liquida” priva di riferimenti identitari ed in balia del velleitario melting pot multietnico, multireligioso e multiculturale.
La stessa UE nega l’acquisto della cittadinanza del Paese di residenza ai cittadini di Paesi membri dell’Unione stessa, anche se presenti da anni,ma si rimette alla legislazione dei singoli Stati di appartenenza.Il concetto stesso di cittadinanza europea risulta ad oggi un wishful tinking che gl i Stati membri si guardano bene dal tradurre in pratica.
Infine.Il diritto di voto stesso si lega non tanto alla permanenza sul territorio stranero,quanto alla partecipazione alla costruzione della respublica e della communis opinio di una società civile.
In caso contrario infatti risulta strumentale e non favorisce l’integrazione matura tra persone provenienti da radicali differenti esperienze di società civile.La stessa UE infatti distingue tra cittadinanza europea e cittadinanza del singolo Stato di appartenenza, privilegiando la seconda rispetto alla prima in materia di diritto di voto politico ed amministrativo.A maggior ragione non vi è logica che cittadini extraUE possano vantare status o diritti come il voto che presuppongono non solo la fiscalità,ma anche la cittadinanza.
Si rammenterà certamente il monito del filosofo Thoreau,che legittimava il cittadino a non pagare le tasse ove le stesse fossero utilizzate dallo Stato per progetti ed opere immorali.
Non vi è dubbio che lo Stato nazionale come abbiamo imparato a conoscerlo nel XX secolo – basato sui concetti di popolo, territorio e sovranità – presenti un’immagine problematica con più ombre che luci, ma appare poco lungimirante portarlo sul banco degli accusati in nome della sua inadeguatezza a far fronte alle sfide della globalizzazione: infatti qualunque organizzazione politico-giuridica tollera un certo grado di eterogeneità e conflittualità sociale a condizione che il pluralismo si mantenga entro limiti culturali determinati e condivisi.Il bene comune esige la “polifonia “ dei valori, come rammentano Joseph Ratzinger e Jurgen Habermas nel loro colloquio alla Catholische Akademie di Monaco, e non già il caos istituzionalizzato.