Come stabilito anche dal Parlamento europeo, il 17 Ottobre si celebra la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà.
rnPovertà significa fame, denutrizione, malattia, mancanza di istruzione e di libertà. E’ stata descritta in molti modi e può avere volti diversi nello spazio e nel tempo. Per capire a fondo l’esperienza della povertà bisognerebbe viverla, dicono alcuni…E forse è vero: non si può capire cosa significhi perdere un figlio per mancanza di cibo, o peggio, per avergli trasmesso una malattia causata dall’inquinamento dell’acqua, morire di freddo, di fame, di caldo, di siccità. Ma la povertà non è soltanto fame, essa coincide con una vulnerabilità spaventosa che accentua il pericolo, l’impotenza, la negazione della vita stessa. Una vita che diventa difficile, dolorosa, a volte impossibile oltre che priva di dignità umana.
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Primo fra gli obiettivi e gli impegni del Millennio fissati dall’ONU è quello di “dimezzare, entro il 2015, la percentuale della popolazione mondiale il cui reddito è inferiore a un dollaro al giorno”. Obiettivo ambizioso, ma difficile da raggiungere se non si modifica la sostanza dei rapporti sociali ed economici internazionali.
La denutrizione nel mondo ha superato ormai la soglia di un miliardo e mezzo di persone, ovvero il 25% della popolazione mondiale. Circa 24 mila persone muoiono ogni giorno di fame, di cui tre quarti sono bambini al di sotto dei 5 anni di età e la maggior parte per malnutrizione cronica.
Tra le cause non solo l’incremento demografico, le guerre, la frequenza di catastrofi ambientali ma soprattutto le scelte politiche dei vari paesi e le leggi dell’economia mondiale, come lo spropositato aumento dei prezzi alimentari, dovuto all’instabilità dei mercati agricoli anche a causa di una gestione generale che non privilegia l’ottimizzazione delle risorse ma la salvaguardia dei guadagni di chi le gestisce.
Eppure, paradossalmente, l’estrema povertà nel mondo confina con l’abbondanza, se si pensa che, come afferma la FAO, una ridistribuzione più equa delle risorse alimentari potrebbe sfamare il doppio della popolazione attuale!
Ma come si misura la povertà? I parametri classici definiscono “povertà assoluta” la deprivazione sostanziale dei beni di sostentamento primari e “povertà relativa” una condizione di svantaggio rispetto agli standard di vita, calcolati su livelli medi di reddito e/consumo della popolazione di riferimento. Se ci riferiamo a medie nazionali, la povertà assoluta e relativa viene misurata ogni anno dall’ISTAT, che si basa sui redditi dichiarati (e quelli non dichiarati?).
In Italia nel 2010 i poveri sono stati stimati in 8 milioni 272 mila, il 13% della popolazione.
Se invece spostiamo l’attenzione a livello comunitario il focus diventa ancora meno chiaro a causa della relatività dei redditi nei vari paesi. Rapportandosi con l’America, occorre rivedere ulteriormente parametri e misure. Quanti giovani newyorkesi, sebbene seduti sulle panchine di Union Square in giacca e cravatta (perché questo impone lo status), con un portatile sulle ginocchia, sono in realtà alla ricerca di un impiego, senza casa ma con una laurea? La crisi economica degli ultimi anni ha avuto conseguenze importanti sul numero di americani alla soglia della povertà. I dati dell’US Census Bureau degli Stati Uniti classificano 46 milioni di americani poveri, 3 milioni in più del 2009, il 15% della popolazione. Ovviamente con le dovute differenze: il tasso di povertà degli afro-americani è del 27%, quello dei latinos del 26%, mentre quello dei bianchi il 13%. Per non parlare dell’assicurazione sanitaria, che manca a 49 milioni di americani. Secondo dati dell’Urban Institute, che studia i problemi delle città, la povertà dei bambini negli Stati Uniti costa 500 miliardi di dollari annui. Si calcola che l’1% degli americani controlla il 38% del patrimonio finanziario e il 10% ne controlla il 71%.

Più che di povertà assoluta o relativa, forse oggi è più corretto parlare di povertà composite (bisogni primari –sopravvivenza, secondari – salute-assistenza-istruzione, relazionali – rapporti interpersonali e affettivi). Emerge sempre più anche il concetto di “povertà soggettiva”, uno stato che tiene conto di logiche più ampie, come il soddisfacimento di bisogni sociali, civili, sanitari, rapporti di disuguaglianza, difficoltà di accesso alla società, sfiducia nelle istituzioni, includendo anche fattori psicologici determinati da situazioni personali e sociali. Gli aspetti relazionali dell’esclusione comprendono uno svantaggio generalizzato, somma di più condizioni, in parole povere, il fatto che ci si sente emarginati e impotenti per motivi più complessi.
In ambito europeo per esclusione sociale si definisce la situazione in cui l’individuo perde la percezione di appartenenza ad una comunità. Dunque non si può misurare la povertà solo con il parametro/soglia di un dollaro di reddito giornaliero, quando peraltro il potere d’acquisto di un dollaro è diverso in ogni angolo del mondo.
Le nuove povertà non sono soggette soltanto ad unità di misura come numeri e percentuali perché significano anche: senso di insicurezza, instabilità emotiva, precarietà, malattia, pericolo sociale. Sempre più anziani, genitori single, giovani, disoccupati, emigrati rappresentano categorie di riferimento per un tessuto sociale in cui la povertà è in aumento, nonostante si parli di benessere.
I principali elementi di criticità riguardano i meccanismi di inclusione-esclusione sociale.
Il tessuto sociale, economico e urbano è in continua evoluzione e se il luogo comune considera la globalizzazione e la crescita economica una condizione per la riduzione della povertà, a ben vedere essa determina nuove tipologie di povertà trasversale. Instabilità, fragilità di relazioni dentro e fuori la famiglia, precarietà lavorativa, vulnerabilità ed insicurezza intaccano la dignità umana.
Quando un anziano, un immigrato o una persona poco istruita non conosce i propri diritti, quando le persone meno abbienti non possono accedere alla giustizia, quando la mancanza di possibilità economiche preclude il diritto allo studio si può parlare di esclusione sociale. Ma esiste anche il fenomeno di auto-esclusione sociale a seguito di eventi traumatici che porta una persona a non riconoscersi più nella famiglia o nella società, come il giovane che lascia la scuola, o chi ha avuto una disavventura affettiva e rifiuta un nuovo progetto di vita, chi accetta un lavoro in nero o lavori intrecciati alla criminalità (spaccio, prostituzione…), chi non vota più perché non ha più fiducia nelle istituzioni o chi chiede prestiti agli usurai. Tutte premesse di un percorso già segnato, verso una condizione di esclusione da una vita degna.
Alla luce di tutti questi aspetti, diventa urgente orientarsi verso modelli economici e sociali adatti al futuro. Se la povertà è la madre dei delitti, l’ingegno carente ne è il padre, affermava Jean de La Bruyère, critico e saggista francese (1645 – 1696). Un impegno contro la povertà non può essere che capillare a tutti i livelli. Partendo dalla considerazione che in un mondo con risorse limitate la crescita infinita non è possibile, alla competizione occorre sostituire la cooperazione e all’esclusione l’integrazione secondo modelli di sostenibilità con scelte produttive rispettose dell’ambiente, un sistema finanziario orientato al bene comune, sistemi agricoli ed alimentari che favoriscano un’equa ridistribuzione delle ricchezze e l’utilizzo delle tecnologie innovative per il miglioramento dello sviluppo sostenibile.
Oggi la lotta alla povertà non può e non deve essere solo legata alla dimensione del reddito.
Parlare di povertà è un fenomeno complesso che interessa molteplici aspetti e spendere impegno e risorse per combattere la povertà potrebbe essere uno dei migliori investimenti di tutti gli stati per il futuro comune.

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