Ricordo le ragioni per cui all’epoca dell’elaborazione di un progetto di legge con questa impostazione – erano i c.d. Dico, redatti assieme a due colleghi universitari (Renato Balduzzi, oggi ministro del governo Monti e Stefano Ceccanti, oggi Senatore del Pd) – sembrò proficuo utilizzare quale prova del rapporto giuridico tra i conviventi, anziché un nuovo patto paramatrimoniale, uno strumento più duttile e tipicamente certificativo, com’è l’iscrizione all’anagrafe, cui poi una legge ad hoc riconducesse alcuni diritti individuali in capo specialmente alla parte più vulnerabile del rapporto, come la successione nel contratto di locazione, la partecipazione agli utili d’impresa, alcune prerogative lavoristiche, ecc. Il tutto senza apodittiche affermazioni di superamento della concezione di famiglia e soprattutto senza lasciare all’alea delle più disparate decisioni dei giudici la catalogazione di quelli che potrebbero soggettivamente apparire “diritti” dei conviventi (questa la conseguenza concreta della decisione di Cassazione, che lascia ai tribunali il compito di scegliere di volta in volta il contenuto specifico dei diritti “alla vita familiare”). La logica complessiva di quell’approdo legislativo era quello di assicurare maggiori tutele e certezze alla parte debole di un rapporto, fosse questo di tipo affettivo o solidaristico. Cioè il fatto di convivere assieme con forme di mutualità spontanee attiva inesorabilmente degli obblighi di solidarietà tali da richiedere a ciascuno dei conviventi di farsi carico dell’altro, regola questa di civiltà giuridica già applicata dalla giurisprudenza in situazioni che generano affidamenti. E ciò a prescindere dai motivi della convivenza: del resto perché distinguere il convivente a seconda che la sua unione sia di tipo etero oppure omosessuale? Certamente contro questa impostazione obiettano tutti coloro che invece vedono il cuore delle convivenze di tipo non matrimoniale nella libertà di sciogliere il rapporto senza conseguenze e senza oneri, postulando altrimenti la consacrazione della scelta in un atto negoziale (sono per intenderci i paladini dei “Didore” di brunettiana memoria). Ma, appunto, questo va contro l’idea che invece la solidarietà scatti per il fatto stesso della convivenza e della mutualità.
Ora l’intento – che trapela dalla decisione della Cassazione dello scorso 15 marzo – di distinguere tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, giustificabile perché le coppie di tipo eterosessuale avrebbero comunque potuto sposarsi, mentre quelle omosessuali no, finisce inevitabilmente per introdurre non due, ma tre situazioni, in senso lato “familiari”: quella delle coppie eterosessuali che hanno fatto la scelta (ma è davvero così per entrambi?) di non sposarsi (c.d. “famiglie di fatto”); quella dei coniugi (famiglie coniugali); e quella dei conviventi che avrebbero voluto sposarsi ma non hanno potuto (“famiglie” omosessuali). Il che, aldilà della condivisione di questo schema, andrebbe introdotto con una legge e non certo con il variegato concetto di famiglia di ciascuno dei ventimila magistrati italiani. Una legge di tal fatta, però, darebbe vita ad un cortocircuito costituzionale: da un lato, al nuovo patto paramatrimoniale non potrebbero accedere le coppie eterosessuali altrimenti si creerebbe un istituto in concorrenza con il matrimonio dell’articolo 29 della Carta e, dunque, incostituzionale; dall’altro, proprio la mancata fruibilità del nuovo istituto per le coppie eterosessuali finirebbe per essere considerato discriminatorio, in quanto anche a queste ultime non potrebbe non spettare quel “diritto alla vita familiare” nell’accezione larga, che prescinde dal matrimonio, creato dalla decisione di Cassazione di giovedì scorso.
Questo articolo è stato pubblicato la scorsa settimana su Il Foglio