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La sentenza della Corte di Appello di Milano sulla vicenda della ragazza di Lecco che vive in stato vegetativo da circa 16 anni pone in Italia l’interrogativo inquietante: si è aperto una varco all’eutanasia? E’ questo conforme alle leggi della Repubblica italiana?

La decisione fa seguito alla sentenza di Cassazione dello scorso ottobre ove si afferma che si può autorizzare la cessazione delle terapie di un paziente in stato vegetativo “irreversibile”, ove si ritenga, in base ad alcune presunzioni, che questa sia la sua volontà. Ora i giudici d’Appello applicano il principio al caso specifico ricorrendo alla figura del rappresentante legale. Ciò significa che un soggetto diverso da Eluana può decidere se interrompere le terapie.

Ma attenzione qui c’è già un gravissimo errore di fatto: Eluana non è sotto terapia, ma viene alimentata attraverso un tubicino. Si tratta, dunque, di non darle più da bere e da mangiare, esattamente come il caso di Terry Schiavo.

Si dice che se Eluana fosse cosciente, potrebbe rifiutare un’alimentazione artificiale: il punto è proprio questo: “se fosse cosciente”. Ma Eluana non lo è, e, dunque, si ricorre ad un terzo soggetto, che secondo i giudici fungerebbe da arbitro circa la presunta volontà di Eluana, ma che in realtà pone in essere un arbitrio giuridicamente e costituzionalmente inaccettabile.

Inaccettabile, da un punto di vista giuridico, perché il nostro diritto conosce la figura della rappresentanza solo per l’esercizio di diritti disponibili e, invece, la vita è giuridicamente “indisponibile”. Poi, e soprattutto, perché il diritto serve a tutelare le persone, qui, invece, viene strumentalmente utilizzato per eliminarle.

A ben vedere, in punto di diritto, non c’è molta differenza con il potere di vita e di morte degli imperatori romani, l’ideologia nazista o la schiavitù che rende gli uomini come cose. Possono apparire concetti forti se si ha un approccio culturale – è chiaro che le situazioni storicamente e socialmente sono diverse – ma sono concetti esatti se si ha presente la funzione del diritto che è, ripeto, quella di tutelare sfere di interesse, in primis la vita, non di annientarle.

I giudici richiedono poi anche una valutazione dei principi etico-religiosi del malato. Ma questo non può che aggravare l’erroneità della decisione della Corte d’Appello e, ancora prima, della Cassazione. Risalire alle visioni del mondo del paziente, che nessuno può dire ancora attuali, significa definitivamente di non tenere conto della reale volontà del malato, che, per essere libera, deve essere attuale, circostanziata e contestualizzata. E’ umanamente drammatico e sbagliato retrodatarla perché si finisce, come detto, per farsi strumento di un arbitrio, in base ad una presunta volontà altrui.

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L’inaccettabilità della decisione è anche con riferimento alla Costituzione italiana.

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Alcuni interpreti fanno erroneamente discendere il diritto del malato al rifiuto delle cure dall’art. 32 della Costituzione, dove si fa divieto di trattamenti sanitari obbligatori a meno che non ci sia una legge a consentirli. Nel caso di Eluana, intanto non siamo davanti ad un trattamento sanitario, che non consiste certo nel dare da mangiare ad un malato. Inoltre l’articolo 32 della Carta costituzionale si riferisce a trattamenti collettivi, come una terapia imposta dall’autorità pubblica ai cittadini, e non alla cura indicata dal medico per un singolo paziente. Se solo si avesse tempo di rileggere la nostra bellissima Costituzione, ci si accorgerebbe subito che nel dibattito alla Costituente su questo articolo l’obiettivo era quello di evitare, memori delle aberrazioni dei regimi totalitari, interventi terapeutici di massa.

Il paziente potrebbe rifiutarsi, ma in base a principi costituzionali di libertà, che precludono che altri possano intervenire sul proprio corpo senza il necessario consenso dell’interessato. Siamo nell’articolo 2 della Costituzione che riconosce i diritti inviolabili della persona e la sua libertà ne è il presupposto, fino alla drammatica estrema conseguenza di lasciarsi morire anziché farsi curare, come riportarono le cronache di qualche anno fa per il caso di una donna che rifiutò l’amputazione di un arto in cancrena, e poi a causa di questo morì. Sono decisioni perlopiù eticamente non condivisibili, ma il diritto preserva lo spazio di libertà; sarà poi la coscienza morale degli uomini o, per chi crede, Dio, a giudicare.

Il cerchio si chiude qui, la libertà può essere esercitata soltanto dal suo titolare. Nessuno può farsi rappresentante di decisioni drammatiche come l’esito della vita di una persona. E’ proprio per questo che in altra occasione ho parlato di “paradosso del testamento biologico” (vedi “Il paradosso del ‘testamento biologico’” del 31/10/2007 su bene comune.net): si vuole tutelare la libertà dell’individuo di rifiutare le cure o addirittura il cibo, e poi quella libertà viene esercitata da vari soggetti tranne che dal suo effettivo titolare. Siamo davanti ad un’analisi fondata sullo schema costi-benefici e non sulla reale salvaguardia della libertà della persona. Il malato in stato vegetativo finisce per essere considerato un “peso” sociale, che, per quanto umanamente drammatico, non potrà mai ridurre il valore della persona-soggetto di diritto ad un bene disponibile come se fosse una cosa.

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 Questa situazione, se la decisione dei giudici di Milano verrà attuata, non rappresenterà in Italia l’anticamera dell’eutanasia, ma, purtroppo, sarà già eutanasia
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