A Strasburgo, presso il Consiglio d’Europa, la Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso in appello presentato dal Governo italiano lo scorso aprile, contro la sentenza relativa all’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche (Lautsi vs. Italy, no. 30814/06). La sentenza della Grande Chambre ha nei fatti ribaltato tutto l’iter concettuale dell’impianto accusatorio che in primo grado aveva portato la Corte di Giustizia alla condanna dell’Italia .
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C’è veramente motivo di essere particolarmente soddisfatti per la decisione assunta dai giudici della suprema corte del Consiglio d’Europa, in quanto si evidenzia un assiologico ribaltamento della logica culturale con cui i magistrati hanno affrontato il delicatissimo tema del rapporto della libertà religiosa con la sfera pubblica dello Stato e della società civile.

Se è vero che il diritto non è solamente una “misura dell’agire umano” (una tal condotta è ammissibile, quest’altra condotta è inammissibile, NDR), ma anche e sopratutto una “misura di giudizio sul valore dell’agire umano” – come sosteneva il grande giurista, filosofo del diritto naturale, Alessandro Passerin d’Entreves – ne deriva che la relazione tra diritto e morale resti il punto cruciale dei compiti del legislatore.
Ebbene si può ragionevolmente considerare che la Grande Chambre abbia – nel pronunciarsi sulla questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, – messo da parte con coraggio la logica interpretativa dei canoni e delle leggi ispirata a quel positivismo giuridico in cui si incarna una precisa concezione laicista e sovente antireligiosa che in due secoli di storia, dall’Illuminismo ad oggi, ha fatto dello Stato un soggetto sganciato dalla irrinunciabile riflessione sui suoi presupposti etici, come rammenta il Papa Benedetto XVI nel suo dialogo con il filosofo e politilogo Jurgen Habermas.

In soldoni, come afferma Joseph Weiler – il giurista americano di fede ebraica che ha sostenuto il ricorso del Governo italiano rappresentando, pro bono, i Governi di Armenia, Bulgaria, Cipro, Federazione Russa, Grecia, Lituania, Malta e San Marino nella vertenza Lautsi di fronte alla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – il ribaltamento della decisione della Corte di Giustizia significa il rigetto di un’Europa ‘a misura unica’ , ispirata a quel concetto di “democrazia meramente procedurale” laicista e indifferente se non ostile al senso religioso che permea l’agire della società civile, e per converso, il riconoscimento della necessità di tutelare e promuovere anche nello spazio pubblico di governo della società ogni tradizione storica e valoriale pluralista, comunitaria e identitaria.

In concreto, la Grande Chambre ci dice che ogni singolo Stato ed ogni ordinamento giuridico non possono rigettare la libertà religiosa nello spazio esclusivo della coscienza privata, ignorare – o peggio rinnegare – gli apporti istituzionali e comunitari allo spazio pubblico da parte della religione senza rischiare di cadere nella dittatura “istituzionalizzata” del laicismo di Stato.

Le solide argomentazioni giuridiche della Grande Chambre, che hanno negato la violazione di ogni libertà individuale nell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, rinviano dunque alla necessità, per l’ordinamento giuridico, di garantire, anzi promuovere la fruttuosa combinazione tra libertà pubbliche e private, – tra libertà della religione e libertà dalla religione – specificamente in considerazione del legittimo riconoscimento della maggioritaria cultura cattolica che in Italia permea i fondamenti giuridici, politici culturali della società civile: ovverosia i pilastri ispiratori della Costituzione.

Analizzando la pronuncia della Suprema Corte del Consiglio d’Europa possiamo individuare tre punti salienti su cui concentrare l’attenzione, anche nella prospettiva futura di una più virtuosa definizione dei rapporti tra istituzioni politiche europee e religione.
In primo luogo: la Grande Chambre accoglie e riconosce a favore dello Stato italiano il cosiddetto “margine d’apprezzamento” espressione del cristianissimo principio di sussidiarietà.
Semplificando possiamo dire che i giudici hanno espressamente riconosciuto come spetti in primis al singolo Paese, l’Italia in questo caso – e non già a istituzioni sovranazionali o internazionali come la UE o il Consiglio d’Europa – valutare e deliberare in ordine al riconoscimento delle proprie tradizioni religiose in seno alle pubbliche istituzioni.
Ciò in quanto al singolo Stato deve essere lasciata la libertà di manifestare i riflessi politici ed istituzionali della propria maggioritaria cultura cattolica.
E’ opportuno ricordare che il principio di sussidiarietà invocato dai giuristi a difesa del ricorso italiano presenta due particolarità: è frutto della dottrina sociale della Chiesa, in particolare viene formalizzato nella Enciclica Quadragesimo anno di Papa Pio XI, ma ancor più viene recepito nei Trattati costitutivi dell’Unione europea, a garanzia della necessità che le istituzioni di governo e le legislazioni siano il più possibile “vicino” ai cittadini in quanto frutto della volontà dei locali corpi sociali, delle locali comunità civili.
Dunque: in primo luogo i poteri decisionali spettano alle istituzioni più vicine ai cittadini, enti locali, regioni, Stato e via via agli organismi superiori ma sempre e comunque con una funzione suppletiva, non sostitutiva,
Ciò in contrasto con quell’approccio legislativo e politico che – sotto le spoglie di un malinteso federalismo sovranazionale europeo – mira ad accentrare negli organismi di Bruxelles, di Strasburgo, i processi legislativi, amministrativi decisionali dell’Europa svuotando le leggi degli Stati del loro sostrato culturale e identitario.
Citiamo testualmente le parole di uno dei magistrati membri della Grande Chambre, il giudice Bonello: “Un tribunale dei diritti dell’uomo non può permettersi di soffrire di Alzheimer storico e non ha nessun diritto di disattendere la continuità culturale di una nazione che si è sviluppata nel tempo, né di ignorare ciò che, lungo i secoli, ha plasmato e definito il profilo di un popolo”.

In secondo luogo: l’esposizione del crocifisso in luoghi pubblici non discrimina il non credente né tantomeno limita la libertà religiosa dello stesso.
Le osservazioni della ricorrente, la sig.ra finlandese Lautsi si incardinavano sul fatto che la presenza del crocifisso nella aule scolastiche offendessero la sua libertà di non credente e la discriminassero.
La Grande Chambre ha saggiamente rilevato come l’esposizione di un simbolo religioso nella spazio pubblico non è sufficiente a offendere i diritti umani del non credente, in quanto in questo caso i diritti umani diverrebbero uno strumento capzioso – capriccioso – per vedere soddisfatto ogni mero desiderio del singolo individuo, permettendogli di eliminare qualsiasi cosa non gli sia gradita.
In effetti è realistico rilevare come in nessuna cultura che non sia laicista, relativista e in ultima istanza liberticida la "sensibilità" di un singolo prevalga in giudizio sull’effettività di un istituto non negoziabile in quanto comunemente accettato, ovvero di una rappresentazione, di una icona della Verità fondante che si incarna nella libertà religiosa.
Si pone anche in questa cornice la necessità di riconoscere con lealtà l’irrinunciabile nesso tra morale e diritto che deve sottendere ad ogni definizione di diritto come facoltà di agire per un proprio interesse in quanto ritenuto riconducibile ad una sfera meritevole di tutela da parte dello Stato e non già un mero capriccio.

In terzo luogo: i giudici della Corte Suprema hanno voluto riconoscere che i simboli religiosi hanno spesso un valore culturale civile che travalica la mera sfera religiosa, per partecipare in simbiosi con la società civile ad una virtuosa promozione dei diritti e libertà della persona umana
La decisione della Grande Chambre sul caso Lautsi richiama questa logica “polifonica” per citare le parole dell’allora Cardinale Ratzinger nel dibattito sul rapporto tra fede e ragione nello Stato liberale.
Pur riconoscendo l’ovvia ’origine religiosa del crocifisso, la Corte ha accettato la tesi dell’Italia che “il crocifisso rappresenta anche i principi e i valori” di libertà, uguaglianza e fraternità che “costituiscono i fondamenti della democrazia” e dei diritti umani in Occidente
Il crocifisso rappresenta un simbolo religioso, culturale e identitario e proprio per questo non ha mai assunto una valenza coercitiva, come invece sosteneva la Corte nella sua sentenza di primo grado
L’ordinamento giuridico italiano, a differenza di quello francese e di quanti altri ispirati ad un astratto concetto di laicitè è sempre stato conforme al riconoscimento ed all’inclusione nella propria normativa dell’identità valoriale culturale nazionale.L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è precedente addirittura al Concordato, ma fu decisa dallo Stato liberale, risorgimentale e anticlericale attraverso la Legge Casati n. 3725 del 13 novembre 1859 sul Riordinamento dell’Istruzione pubblica, seguita dal Regolamento di attuazione approvato con Regio Decreto n. 4336 del 1860 (art. 140).
La stessa Costituzione italiana rifiuta l’impostazione laicista, di matrice illuministica, per la quale il fatto religioso ha una natura meramente individuale ed è destinato a restare nell’ambito della sfera esclusivamente privata. La Costituzione valorizza, invece, il ruolo della religione e delle singole Confessioni religiose, come dimostrano gli articoli 7, 8, 19 e 20.La disciplina costituzionale, dunque, pur assicurando a tutti la libertà religiosa, riconosce le singole confessioni come si trovano nella realtà sociale. Dunque, la Costituzione, come si evince chiaramente dal testo, riconosce alle confessioni religiose eguale libertà, ma non eguaglianza di trattamento.

Posto innanzi a queste prove, l’Europa, dev’essere costretta a ripensare quella stessa nozione di laicità che è scaturita dal suo seno, come uno dei caratteri peculiari della propria civiltà. Il suo limite consiste nel carattere astratto – puramente razionale – che la nozione ha ricevuto impresso all’atto della nascita e che la Sentenza Lautsi tradisce in misura palese. La pretesa illuministica di rinvenire una lex uguale sotto ogni latitudine – e perciò universale – non poteva formulare, di necessità, altro concetto di laicità.
Tutti i cittadini sono senz’altro uguali di fronte alla legge e nessuno può essere, di conseguenza, discriminato per le proprie convinzioni, religiose o d’altra natura. Questo principio, solennemente proclamato dalla nostra Costituzione repubblicana e senz’altro intangibile, non impedisce di riconoscere il ruolo decisivo del cristianesimo nella costruzione del nostro continente, del nostro paese fino a modellarne il paesaggio, la lingua, i comportamenti sociali, il pensiero politico e giuridico. Il principio di realtà impone di prenderne atto, con serena constatazione razionale.

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