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La notizia della condanna a morte di Teresa Lewis ha, com’era naturale che fosse, suscitato l’attenzione del mondo intero, e colpito tutti noi. Per tante ragioni: perché era una donna, e le donne non si macchiano tanto spesso di crimini per i quali sia prevista la pena di morte, e dunque ancor meno spesso sono giustiziate (lasciamo perdere i casi tipo Sakineh, che meritano un discorso a parte); poi perché era affetta da un ritardo mentale, seppur non sufficiente a farla dichiarare incapace di intendere e volere; poi ancora perché, secondo alcuni, sarebbe stata vittima di un raggiro, e perciò solo indirettamente colpevole; e ancora, infine, perché una condanna a morte con un cocktail di barbiturici non può non colpire ogni cittadino pensante del mondo civile.

Però, proprio perché ci piace dirci cittadini "pensanti" e civilizzati, sarebbe auspicabile che nel bailamme di commenti, voci indignate, appelli, raccolte di firme, sit-in, invocazioni e preghiere, tutte cose meritevoli e in gran parte giustificate, si facesse un poco di ordine.

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Cerchiamo perciò di distinguere, di smontare in pezzi la questione per guardarli con maggiore precisione e lucidità.
Il primo aspetto da valutare è quello più generale: siamo contro o siamo a favore della pena di morte? E’ chiaro che siamo di fronte ad una domanda epocale, che non cessiamo di porci da quando Caino introdusse l’omicidio nel mondo. In modo fin troppo sintetico, direi che l’opposizione alla pena di morte può essere sostenuta solo facendo riferimento ad una posizione di principio, perché gli argomenti di fatto (non serve, non rieduca, non ha effetto deterrente, può essere inflitta ingiustamente…) sono sempre, alla fine, debolissimi. E perciò, per dire di no alla pena di morte, è necessario dirlo senza ragione, pronunciando un no tanto categorico quanto immotivato, e rivendicando per contro l’assoluta intangibilità della vita umana.
Più coerente, e prudente, è in fondo la posizione della Chiesa, che non ha mai escluso di principio la possibilità della pena di morte (non l’ha mai fatto neppure Cristo: di fronte all’adultera non ha invocato l’intangibilità della vita di una donna colpevole, ma l’inadeguatezza morale degli accusatori e la comune condizione di peccatori fra questi e la donna stessa), ma ne ha criticato l’applicazione nel concreto. In qualche modo il richiamo della Chiesa potrebbe essere questo: è davvero necessaria, in questo particolare caso, la pena di morte? E’ davvero inevitabile e giusta? O forse, come quasi sempre accade, potrebbe essere sostituita efficacemente da pene meno cruente?
Se in questa prospettiva torniamo a Teresa Lewis, ci dobbiamo chiedere: cosa ci scandalizza, che venga condannata una donna colpevole di pluriomicidio aggravato, o che venga condannata proprio lei? Perché se ci scandalizza in generale la condanna a morte, per le ragioni dette sopra, dovremmo chiederci: e perché solo alcuni condannati hanno la ribalta delle cronache? Perché, tra le decine di persone che nel mondo vengono ogni giorno condannate a morte, ci colpiscono solo le vicende di alcuni? Perché non facciamo le barricate e le raccolte di firme, o quant’altro, per tutti i condannati a morte?
Può allora essere (è la seconda possibilità) che ci scandalizzi non la pena in sé, ma questa vicenda particolare, il fatto che ad essere condannata sia Teresa Lewis. Ma la domanda dovrebbe essere: e noi cittadini italiani, noi lettori dei giornali, noi che mettiamo le firme e rispondiamo agli appelli, che ne sappiamo davvero, noi, di Teresa Lewis? Diciamo la verità, ne sappiamo pochissimo.
Non sappiamo se fosse davvero pazza, come dicono i difensori, o in grado di intendere e volere, e di comprendere la portata nociva di ciò che faceva, quando assoldava due killer per uccidere il marito e il figlio di lui, e ottenerne l’eredità; non sappiamo se sia stata davvero raggirata dai due complici, che hanno sfruttato la sua scarsa intelligenza, o se non fosse davvero consapevole e partecipe del delitto; non sappiamo, infine, se il disturbo di personalità fosse presente al momento della commissione del reato, oppure no.
Cosa sappiamo, allora? Sappiamo che dopo un regolare processo, in un ordinamento che garantisce i diritti dei cittadini e degli imputati, è stata condannata a morte, perché i giudici di quel Paese hanno ritenuto che la sua colpevolezza fosse dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
E allora, se vogliamo guardare alle cose con un po’ di lucidità, dobbiamo scegliere; o protestiamo per questa condanna come per tutte le altre, indipendentemente dal reo e dal Paese che la esegue, indipendentemente dal fatto che a morire sia una donna o un uomo, un’adultera o un’omicida, una vecchia o un giovane, e così via. Oppure ci informiamo e protestiamo (solo dopo) perché è stato condannato un innocente, perché le prove non erano sufficienti, perché c’è stato un errore, e così via.
Insomma, o ci opponiamo alla pena di morte in generale, e perciò il caso di Teresa Lewis perde importanza, e si confonde nel tragico mare di uomini e donne che quotidianamente vengono uccisi da un boia, per ragioni variabili e a noi ignote. O ci opponiamo alla condanna di Teresa Lewis: ma sapendo che se facciamo questo dobbiamo giustificare questa scelta, e spiegare perché ci interessa tanto il suo caso tra i mille possibili, e perché siamo convinti che solo nel suo caso questa condanna sia ingiusta e ingiustamente applicata.
Altrimenti, non si capisce più niente.
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