Appare evidente che, se noi europei – ed in modo particolare noi italiani –, intendiamo conservare un significativo grado di competitività economica e tendere a migliori condizioni di vita per i nostri figli e per i nostri nipoti, dovremmo riflettere attentamente sulle misure di ordine politico, economico e culturale che scongiurino la “recessione demografica” che da decenni sembrerebbe spingere il Continente europeo e la Nazione italiana verso un triste declino.
A proposito di declino, sono in molti oggi a parlarne e a scriverne, e la maggior parte degli analisti enfatizza le preoccupanti implicazioni economiche di tale deriva recessiva. In effetti, accanto alle evidenti ripercussioni sulla capacità produttiva dovuta ad un progressivo deperimento delle energie che animano lo scenario economico europeo ed italiano, si prevedono ripercussioni altrettanto preoccupanti in ambito politico e culturale. Un paese, ovvero un’area geografica come l’Europa, che dovesse registrare la progressiva diminuzione della propria capacità economica dovrebbe interrogarsi sulle precondizioni che determinano la genesi dello sviluppo economico ed il consolidamento delle istituzioni che lo renderebbero strutturale.
In primis, bisognerebbe considerare l’elemento umano come fattore decisivo e fondamentale di un qualsiasi processo produttivo. Oggi più che mai, come ha opportunamente sottolineato Ettore Gotti Tedeschi in un articolo pubblicato su “L’osservatore Romano” lo scorso 13 febbraio, il “capitale umano”, ossia le conoscenze, le abilità, la cultura, le credenze, ma anche la salute, l’educazione e i valori, insieme a tutto ciò che definisce e distingue il genere umano e qualifica le singole persone, costituisce il più affascinante e raro – dunque prezioso – fattore di produzione.
In secondo luogo, in tema di analisi delle concause che possono favorire una fase di declino ovvero di sviluppo economico, accanto alla suddetta variabile antropologica, sarebbe opportuno considerare la variabile politica-istituzionale. In definitiva, alla luce dell’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa, la domanda ineludibile che ci dovremmo porre è la seguente: in che modo preservare la libera scelta che determina il posizionamento dei singoli piani individuali, avendo come prospettiva vincolante la “norma fondamentale” di cui parla Benedetto XVI nella Deus caritas est, ossia la giustizia? Benedetto XVI riconosce che per la Dottrina Sociale della Chiesa norma fondamentale dello Stato è il perseguimento della giustizia, ossia un ordinamento sociale in grado di garantire a ciascuno la sua parte di “bene comune”, nel rispetto del principio di sussidiarietà.
A questo punto emergono tre elementi: uno di ordine epistemologico, uno politico-istituzionale ed uno morale. Sotto il profilo epistemologico, Benedetto XVI, nel passaggio che abbiamo riportato dalla sua enciclica non individua nello Stato apparato la causa efficiente e finale per il perseguimento del bene comune, ma rinvia al principio di sussidiarietà: nessuna mente tra quelle presenti nel genere umano potrà mai raccogliere tutte le informazioni rilevanti e computarle in un sistema che tenga conto delle esigenze, delle capacità e dei desideri di ciascuna persona. È questo il fondamento logico del principio di sussidiarietà.
Sotto il profilo politico-istituzionale egli non riconosce nello Stato un apparato burocratico il cui valore, antropomorficamente inteso, sarebbe preordinato rispetto a quello delle parti che lo compongono, ma è identificato con una norma fondamentale, una sorta di “verità di per se stessa evidente”: il perseguimento del “bene”.
Sotto il profilo morale, il Papa riconosce che è obbligo di chi è più prossimo al bisognoso farsi carico delle sue esigenze e dei suoi bisogni. È compito dei genitori farsi carico dei bisogni e delle aspettative spirituali, materiali e culturali dei propri figli. Così come è obbligo dei figli fare altrettanto nei confronti dei propri genitori, avendo cura della loro salute fisica e spirituale. È questa l’ordinata articolazione della società secondo la Dottrina Sociale. In definitiva, ciò che emerge è una teoria dello Stato – ovvero una filosofia della società civile – che non dispiacerebbe né a Montesquieu né a Tocqueville, una epistemologia delle scienze sociali che sottoscriverebbe Hayek ed un’impostazione antropologica che esalta il primato e la dignità della persona, da sempre sostenuti dalla dottrina sociale cattolica.
All’indomani della caduta dei sistemi di socialismo reale, al manifesto fallimento della dottrina marxista e alla profonda crisi dei sistemi di welfare, l’insegnamento sociale della Chiesa “è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi”. In tema di sviluppo e di rapporto tra economia e politica, il primo tra gli orientamenti che la Dottrina Sociale propone è che alla politica spetta un compito centrale nella realizzazione di quella norma fondamentale di cui abbiamo già detto, predisporre quelle che W. Röpke chiamava le “condizioni quadro”, nel rispetto del principio di sussidiarietà e, di conseguenza, dell’“ordine concorrenziale”. Dunque, ai fini di un integrale sviluppo economico, il principio di sussidiarietà disegna la giusta articolazione tra i soggetti che compongono il variegato corpo sociale. Se la persona, la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi hanno una fondazione ed una legittimazione autonoma dallo Stato e, di conseguenza, lo precedono e, in un certo senso, lo pongono in essere, ne consegue che lo Stato deve in primo luogo rispettare e promuovere queste dimensioni, senza alcuna pretesa egemonica. Ciò significa che lo Stato dovrà astenersi sempre dal promuovere azioni che siano di competenza delle comunità che lo precedono. Spetterebbe allo Stato intervenire con strumenti adeguati – “conformi” – per aiutare le comunità (domestiche ed internazionali) ad esplicare le loro funzioni e a svolgere quei compiti che appartengono a loro in modo primario e naturale. In definitiva, la dottrina sociale della Chiesa si presenta come un’espressione delle scienze sociali unificate e rese originali dalla rappresentazione di una figura d’uomo che non si esaurisce e non si riduce alla rete delle relazioni sociali, ma che si definisce a partire dalla sua unicità e creatività, elementi di cui la persona assume piena consapevolezza solo nella relazione e, di conseguenza, nella esplicazione della sua dimensione comunionale (civile). È in questa dimensione che la nozione di bene comune, irriducibile ad una qualsiasi forma di “soluzione hobbesiana”, assume connotati inediti e adeguati ad una realtà sociale contraddistinta dalla pluralità degli interessi ed abitata da soggetti inevitabilmente fallibili ed ignoranti.