Vale la pena ricordare ancora una volta cosa abbiamo e stiamo sbagliando come economisti (non come frontiera della ricerca ma come cultura economica di base).
Secondo l’approccio standard il mercato e i prezzi, che riflettono le scelte di milioni di risparmiatori, sono in grado di raccogliere tutta l’informazione disponibile e dunque di valutare correttamente il valore delle attività finanziarie. Ma il mercato fallisce per via delle asimmetrie informative (ed è del tutto ragionevole e teoricamente dimostrato da Grossman e Stiglitz che, se l’informazione costa in termini di denaro o di tempo, è impossibile che tutti i risparmiatori abbiano in equilibrio la stessa informazione). In tale contesto le istituzioni finanziarie dovrebbero costruire e far applicare le regole ottimali in grado di motivare gli agenti economici a comportarsi in modo non contrario all’interesse collettivo.
Secondo l’approccio standard il mercato e i prezzi, che riflettono le scelte di milioni di risparmiatori, sono in grado di raccogliere tutta l’informazione disponibile e dunque di valutare correttamente il valore delle attività finanziarie. Ma il mercato fallisce per via delle asimmetrie informative (ed è del tutto ragionevole e teoricamente dimostrato da Grossman e Stiglitz che, se l’informazione costa in termini di denaro o di tempo, è impossibile che tutti i risparmiatori abbiano in equilibrio la stessa informazione). In tale contesto le istituzioni finanziarie dovrebbero costruire e far applicare le regole ottimali in grado di motivare gli agenti economici a comportarsi in modo non contrario all’interesse collettivo.
La storia della finanza degli ultimi anni ci insegna che questo approccio, il migliore degli approcci possibili, ha grosse falle. Perché ?
L’errore fondamentale che parte della scienza economica ha ormai riconosciuto, ma che non è ancora entrato appieno nella cultura economica comune, è che i fondamenti antropologici dell’uomo economico sono sbagliati.
Il problema è al solito quello della specializzazione funzionale eccessiva e dell’incapacità dell’economia di aprirsi alle conoscenze delle altre scienze sociali. Per la vulgata economica tradizionale, in un mondo di uomini economici e di istituzioni virtuose la crescita delle remunerazioni dei manager consente di attrarre i migliori talenti e i regolatori sono in grado di controllare che l’autointeresse di questi ultimi sia imbrigliato da un sistema di sanzioni efficaci in un comportamento socialmente non dannoso. Il meccanismo in realtà non funziona.
Gli studi recenti sulla felicità (si veda la rassegna dei lavori di Frei e Stutzer sulla più importante rivista economica, il Journal of Economic Literature e i successivi lavori empirici di Fererr-i-Carbonell, Frijters e del sottoscritto) hanno evidenziato un’importante effetto psicologico nel rapporto tra denaro e felicità: il denaro provoca “assuefazione”, ovvero scatena una rincorsa tra realizzazioni e nuove aspettative che spinge gli individui a desiderarne sempre di più (tecnicamente variazioni di reddito ritardate determinano effetti negativi sulla felicità che compensano in gran parte quelli positivi realizzati al momento in cui le prime si sono verificate).
Questo spiegherebbe perchè in molte biografie, così come in quella di Madoff, scopriamo inizi virtuosi e capacità di creare valore economico e sociale per la collettività, seguiti da finali poco nobili. Il principio dell’assuefazione e ciò che ne consegue mette in seria discussione un altro assunto dato per scontato da gli economisti. Bisogna pagare molto bene persone che occupano posti importanti per evitare che siano tentate dalla corruzione al fine di “arrotondare” le loro entrate. I risultati degli studi sulla felicità e quelli della psicologia ci insegnano in realtà che se si è pagati “troppo” bene, tanto che la possibilità di ulteriori aumenti di entrate diventa oggettivamente difficile rimanendo all’interno della sfera dei comportamenti leciti, il rischio serio è quello di una spirale incontrollabile di rincorsa tra aspettative e nuove realizzazioni, con la conseguente ricerca di realizzare queste ultime attraverso comportamenti illeciti.
Tutto ciò dà nuova luce e illustra la razionalità profonda di un principio fondamentale in finanza etica e nello screening dei fondi socialmente responsabili. Mettere un tetto al rapporto tra salari dei manager e dell’ultimo dipendente della struttura non è un principio vessatorio dettato da sadismo penitenziale ma, più semplicemente, una regola di buon senso per evitare le dinamiche illustrate.
Ancora una volta i principi del rating socialmente responsabile dimostrano il loro buon senso e la loro capacità di prevenire meglio quei rischi finanziari che le agenzie di valutazione, i regolatori tradizionali e la stragrande maggioranza dei risparmiatori (non in grado di cogliere i principio base della finanza per cui ad alti rendimenti si accompagnano sempre alti rischi) non sembrano in grado di segnalare, prevenire e cogliere.