quell’ordinanza che dichiarava illegittima, per le strutture pubbliche, l’interruzione dei trattamenti salvavita, comprese ovviamente l’alimentazione e l’idratazione per pazienti in stato vegetativo.rn
Il TAR – si legge nella sentenza – ha stabilito che "i pazienti in stato vegetativo permanente che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare, non devono in ogni caso essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso, e possono, nel caso in cui loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti". Ancora, ha ritenuto che il paziente vanti "una pretesa costituzionalmente qualificata di essere curato nei termini in cui egli stesso desideri, spettando solo a lui decidere a quale terapia sottoporsi".
Nulla di nuovo, in realtà, perché il Tribunale Amministrativo non fa che confermare l’orientamento della Cassazione, così come manifestato nella sentenza Englaro.
Lasciamo allora perdere la specifica vicenda giudiziaria, e concentriamoci su alcuni aspetti del problema di grande rilievo antropologico; cosa ci insegnano, queste sentenze? Ci dicono che il soggetto, in linea di principio, dispone della sua vita e della sua salute; e ci dicono che lo Stato, salva la necessità di proteggere altri soggetti (nel caso, ad esempio, di malattie infettive) o interessi pubblici, non solo non può interferire con l’autodeterminazione soggettiva, ma deve offrire alle manifestazioni di essa la tutela che spetta ad ogni diritto fondamentale. Una tutela assoluta.
Se traduciamo tutto ciò in termini generali, si deve concludere che nel nostro ordinamento il principio di autodeterminazione, almeno per ciò che riguarda la propria vita e la propria salute, ha un rilievo fondamentale, e riposa sull’idea che la libertà soggettiva, ove non si estrinsechi in comportamenti lesivi per i terzi, o contrastanti con gli interessi dello Stato, non possa essere in alcun modo limitata.
Chiediamoci allora: la libertà di cui godiamo, e che l’ordinamento tutela, deve essere intesa in senso puramente formale, così come ci indicano queste sentenze? Il diritto, insomma, deve riconoscere e tutelare la libertà del soggetto a prescindere dai contenuti che di volta in volta si dà, salvi i casi indicati? Ancor più chiaramente: ho la libertà (in senso giuridico) di fare ciò che mi pare della mia vita, purché questo non danneggi nessun altro?
Si badi, che il soggetto abbia la possibilità materiale di farlo, non c’è dubbio. Che io possa di fatto suicidarmi, è tragicamente evidente. Ma la domanda è: il diritto deve tutelare tale mia volontà, riconoscerla come giuridicamente vincolante per gli altri? Perché questo, precisamente, significa riconoscere valore giuridico alla libertà, facendola passare dal piano di fatto a quello di diritto.
Si dirà, giustamente, che nessuno può essere obbligato ad esercitare la sua libertà in modo difforme dalla sua volontà, specialmente in materia sanitaria. Ovvero, nessuno può essere obbligato a vivere, o a sopravvivere, e meno che mai lo Stato può usare la sua forza per far ciò. E tuttavia, questo è un problema diverso, e specificamente un problema di coercibilità. Dire che lo Stato non può legarmi ad un letto di ospedale, e farmi piantonare dalla polizia, affinché mi sottoponga ad un trattamento sanitario, è cosa diversa dal dire che l’ordinamento deve assecondare e tutelare la mia volontà suicida; la prima questione si pone sul piano della coercibilità effettiva, la seconda su quello dei valori giuridici.
La domanda perciò torna ad essere: il diritto di libertà di cui i soggetti godono deve essere inteso in senso formale, tale per cui l’ordinamento tutela detta libertà qualunque contenuto essa abbia, in base alle scelte insidacabili del soggetto?
E’ evidente che, sul punto, i filosofi della morale e gli antropologi potrebbero (dovrebbero) spendere qualche energia, aiutandoci a ritematizzare ancora una volta, un’ennesima volta, il senso ed il valore della libertà umana.
Ma nella prospettiva giuridica si può provare a prendere sul serio tale impostazione formalistica, cercando di capire dove porta, e se tali conseguenze siano compatibili con l’impianto generale del nostro ordinamento.
Se si accetta la visione formale della libertà, per la quale il soggetto è l’unico arbitro dei contenuti materiali della stessa, e l’ordinamento non deve far altro che proteggerla in ogni caso, salvo che non si esplichi in danni a terzi (come si vede: liberalismo purissimo…), ci si scontra subito con alcune incoerenze, alcune più banali, altre meno. Perché, ad esempio, la vendita di medicinali non è totalmente libera e priva di controlli? Perché per acquistare un medicinale anche banale (un antibiotico) ho bisogno della prescrizione del medico, se in fondo l’unico eventualmente danneggiato da un consumo errato sono io? Perché lo Stato protegge la mia salute, anche contro la mia volontà?
E perché una donna maggiorenne, consenziente, non può decidere di farsi infibulare, certo ledendo la sua integrità fisica, ma rispettando la propria personalissima visione della vita? Chi altri è danneggiato, da una scelta del genere?
Gli esempi sono un’infinità: si può andare dal consumo di droghe all’obbligo (fastidiosissimo, soprattutto a Roma, e soprattutto d’estate) del casco, dall’obbligo di indossare le cinture di sicurezza a mille altri casi in cui, chissà perché, l’ordinamento decide di proteggermi contro me stesso.
L’unica possibilità, io credo, è quella di ammettere che la libertà assume valore giuridico solo se si orienta al bene o, in altre parole, a finalità che vengano riconosciute come valori all’interno dell’ordinamento. Ma questo significa, anzitutto, che la concezione formalistica – e liberale – dei diritti di libertà deve essere abbandonata, e che a maggior ragione non può essere utilizzata come paradigma di riferimento in decisioni giudiziarie. Che, peraltro, producono esiti irreversibili e tragici.