Dopo otto anni di Bush, l’America aveva un profondo desiderio di cambiamento. Obama rappresentava il cambio più netto con il passato, sotto più punti di vista. Innanzitutto il tipo di messaggio di cui si faceva portatore: dalla green economy al multilateralismo e alla pace fino, appunto, alla riforma sanitaria. Quindi, il modo di porsi: innovativo e moderno – a partire dall’intenso uso dei social networks – cosa che gli ha permesso di conquistare nuovi democrats, in primis i giovani. Il famoso “yes we can” – probabilmente tratto dal cartone animato Bob the Builder – ha efficacemente veicolato la convinzione che il cambiamento era possibile. Infine, Obama stesso, primo presidente nero della storia americana – anche se lui stesso si schernisce affermando di essere solo il secondo, dopo Bill Clinton – era anche fisicamente simbolo di radicale cambiamento di rotta, che ben rispondeva all’inconscio desiderio dei progressisti americani di riscattarsi moralmente dal passato.
Nei giorni e nei mesi immediatamente successivi all’elezione di Barak Obama, in America l’entusiasmo, la gioia di vivere e la fiducia nella possibilità di cambiamento pervadevano l’aria ed erano quasi fisicamente percepibili. Ben presto, tuttavia, sono cominciati i guai; il problema più grosso forse non è stato la crisi economica, bensì il rischio che Obama ha corso di rimanere intrappolato nelle pastoie (della spartizione) del potere. Coloro che si lamentano dell’astrusità dei procedimenti decisionali dell’Unione Europea dovrebbero studiarsi quelli americani. Pochi sistemi istituzionali e decisionali sono così complessi, ricchi di articolate sfaccettature e delicati passaggi come quello americano. Lo spoiling system, una delle peculiarità e dei punti di forza del sistema americano, è anche un difficile passaggio per i neo-presidenti: è necessario quasi un anno per essere completato, periodo durante il quale il processo decisionale rischia di procedere a singhiozzo. Obama si è così trovato stretto tra il desiderio e la necessità di dare concreti e subitanei segnali di cambiamento, ed un sistema che non era invece istituzionalmente pronto per tradurli in realtà. La stretta disciplina che caratterizzava il cerchio stretto dei collaboratori di Obama in campagna elettorale non ha dunque potuto essere altrettanto efficacemente applicata una volta al governo, a causa della natura stessa dei processi decisionali americani. L’averci comunque provato, è stato subito giudicato come il risultato dell’effettiva inesperienza governativa del nuovo presidente. Idem dicasi di quella certa insofferenza mostrata da Obama di fronte all’impossibilità di fare le cose nei termini e nei tempi che si era proposto. Nel vacuum decisionale, alcune eminenti teste d’uovo hanno ben pensato di suggerire al Presidente le strade migliori da percorrere. Con la giacca tirata da troppe parti, e sotto pressione per essere repentinamente passato dall’essere poco più che un privato cittadino all’uomo più osservato del mondo, Obama ha commesso qualche errore: il maggiore è stato probabilmente l’essersi appropriato della guerra in Afganistan come di una guerra “sua”, anziché un’avventura ereditata suo malgrado da altri. L’Obama degli ultimi mesi del 2009 era dunque diventato a stento l’ombra dell’uomo che aveva trionfalmente vinto le elezioni un anno prima. Il discorso sull’economia alla Brookings dello scorso dicembre così come lo Stato della Nazione di gennaio, tanto per citare due esempi noti, sembravano più enunciati per persuadere se stesso di aver bene agito, che a convincere il pubblico che lo ascoltava. La botta del seggio senatoriale perso in Massachusetts ha poi sicuramente pesato sullo stato emotivo del giovane presidente, conscio che senza il sostegno di Ted Kennedy, non avrebbe forse passato le primarie.
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D’un colpo, come prima era considerato politically incorrect criticare Obama, è diventato fashionable il farlo. Subito, Barack Obama è stato paragonato a Jimmy Carter. Il Premio Nobel, contrariamente alle intenzioni di Oslo, è stato poi la mossa sbagliata nel momento sbagliato. Così come poco azzeccato è stato il discorso che Obama ha pronunciato nel ritirarlo. L’idea del Nobel come premio “alle intenzioni” ha aumentato la predisposizione al poco felice confronto con Carter; le disquisizioni sulla “guerra giusta” – concetto che inevitabilmente implica la divisione del mondo tra, parafrasando Sant’Agostino, i “buoni” che la guerra la fanno per dovere ed i “cattivi” che la fanno perché ci trovano gusto – è stata una scelta infelice perché in intrinseca contraddizione con altri messaggi, ben più “obamiani”, quali il discorso del Cairo.
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Il risultato è stato che yes we can è diventato vorrei ma non posso e, di fronte all’intransigenza dei conservatori e all’indecisione di molti democratici, il saggio consiglio che veniva dato ad Obama sulla riforma sanitaria era di lasciar perdere. In fondo in molti, a partire dal duo Clinton, ci avevano già inutilmente provato.
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Fortunatamente Obama ha avuto il coraggio di rischiare ed ha evidentemente deciso che, piuttosto di fare l’anatra zoppa, era meglio rischiare di fare l’anatra impallinata. Come sappiamo, ha vinto la sua scommessa e ha potuto legittimamente sostenere che questo è il modo per effettuare il cambiamento. Insomma, a mezzanotte di domenica scorsa, Obama è tornato ad essere Obama. Così facendo ha riportato la speranza – a casa e nel mondo – che credere nelle proprie idee e lottare per esse anche a rischio di essere sconfitti è non solo possibile ma anche produttivo. È per la politica domestica di molti paesi – tra i quali il nostro, in cui governo ed opposizione appaiono entrambi incapaci di giocare il loro legittimo ruolo – un messaggio di speranza che dovrebbe far riflettere.
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Cosa sarà di Obama nel prossimo futuro è comunque difficile dirlo. Vinta questa prima importante partita, molte altre sfide attendono il Presidente e resta da dimostrare che la stessa caparbietà ed attitudine al rischio possano portare frutti anche nel campo della politica estera. Ad esempio, presto arriverà sull’agenda internazionale uno dei temi di politica estera più cari ad Obama, quello del disarmo nucleare e dell’opzione zero. Per quanto quest’ultima sia un obbiettivo di lungo corso, la chiusura e ratifica del Trattato post-Start, il successo del Summit sulla Non Proliferazione di aprile e la conferenza di revisione del TNP di maggio – per le loro implicazioni anche in altri settori della politica estera,ad esempio la questione medio-orientale, Iran incluso – saranno tre indicatori chiari dell’effettiva capacità di Obama di tradurre i buoni propositi in azioni concrete anche in politica estera.
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Federiga Bindi è Senior Non Resident Fellow alla Brookings Institution e Direttore delle Relazioni Internazionali alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
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