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Sembra che tutt’al più possiamo sognare di vincere al superenalotto o al “milionario”, per passare poi il resto della nostra vita a difenderci dal fisco, dai ladri, e dai profittatori.
I più giovani sperano poi di diventare famosi, di andare in tv, per essere poi immortalati nelle copertine di qualche settimanale scandalistico, e finire rapidamente nel dimenticatoio o, peggio, nella depressione.
Non importa come e perché si diventi famoso, magari come magnaccia o come “escort”, basta che si parli di te, che ti riconoscano per strada. Cosa che i padri operai e i nonni contadini di tante di queste ragazze e di questi ragazzi avrebbero paventato con orrore.rn
I più colti e “avanzati” tra di noi sperano ancora (in verità molto stanca-mente) in un qualche progresso sociale. Che però resta inserito in un universale, e appunto noiosissimo e infine inutile processo cosmico, che ci si dice inequivocabilmente indirizzato verso il nulla: dal nulla al nulla.
Oppure ci è concesso di sperare in un ulteriore avanzamento delle tecniche che potrà allungarci la vita di qualche anno, prima di finire comunque anche noi nel nulla, prima cioè che questa straziante farsa terrena non la finisca di torturarci.
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Kant ci ha insegnato che una delle domande che caratterizzano la natura dell’uomo è proprio: in che cosa posso sperare? Le altre due sono: che cosa posso sapere? e che cosa devo fare?
I tre interrogativi in realtà sono strettamente collegati tra di loro, e si riassumono nella quarta domanda che Kant aggiunse nelle sue Lezioni di logica: chi è l’uomo?
Potremmo arrivare a dire che la nostra statura umana sia data proprio dall’ampiezza e dalla profondità della nostra capacità di sperare. Siamo nani o giganti, bruti, direbbe Pico della Mirandola, o dèi, a seconda del respiro del nostro desiderio, di ciò che concepiamo come possibile, e quindi desiderabile e appunto sperabile, per noi e per l’universo.
Siamo noi stessi, cioè, con le nostre decisioni personali e culturali, che stabiliamo la nostra dignità, il nostro ruolo negli spazi infiniti del mondo, e quindi anche la forza e l’incidenza della nostra azione creatrice.
L’attuale immiserimento dell’orizzonte delle speranze umane, che ci sta riducendo alla misura della macchina più che a quella degli animali, e alla sostanziale apatia (anche politica) che ne deriva, non è che l’effetto della crisi terminale che stanno vivendo le culture scientistiche e materialistiche del XIX e del XX secolo.
L’uomo, misurato da queste culture, e cioè ridotto alla propria dimensione economica e biologistica, a mezzo di produzione e di riproduzione, e quindi defraudato della propria più intima essenza, della propria infinità, sta trionfando su tutto il pianeta; ma il suo trionfo, come appare sempre più evidente, coincide con la sua catastrofica decadenza.
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Che cosa spera infatti ognuno di noi, se ci liberiamo dalle censure mentali del materialismo ottocentesco, che tra l’altro, non possiede più alcuna ragionevole fondazione teorica, né scientifica?
Noi speriamo di accrescere all’infinito la nostra conoscenza, e che questa conoscenza accresca a sua volta la nostra gioia.
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Noi speriamo di vivere relazioni umane sempre più profonde, un amore sempre più libero da ogni paura.
E speriamo appunto che tutto questo non finisca mai, perché come diceva anche l’ateissimo Zarathustra di Nietzsche: “ogni gioia vuole l’eternità”.
Non può esserci infatti alcuna gioia perfetta se l’ultima parola l’avrà la morte.
Siamo disposti a tornare a sperare a questa altezza, e quindi nella vera felicità? Nella felicità propriamente umana, e cioè in una beatitudine eterna che penetra però già da ora nel tempo e lo trasfigura? Siamo pronti ad accettare questa beata follia, questa invasatura celeste che ci rende però umani, quegli esseri davvero bizzarri e straordinari che siamo?
Abbiamo sufficiente coraggio nelle vene della nostra disperazione per smetterla di rinnegare le nostre più intime speranze, come se fossero ingenue illusioni infantili?
Vogliamo capire che i veri immaturi sono proprio questi scienziati e pensatori e sceneggiatori e registi e conduttori televisivi e giornalisti che ancora non sanno abbandonare i quattro schemi “materialistici” della loro mente paleolitica, i quattro giocherelli del loro asilo infantile interiore, le quattro regolette della loro filosofia da Bignami, perché in realtà sono terrorizzati all’idea di perdere il controllo (che nessuno poi ha…), e di aprirsi al Grande Gioco della creazione in atto?
Vogliamo rimetterci a pensare all’altezza di Platone e di Buddha? E ancora più in alto di loro? Vogliamo misurarci sul metro di umanità che ci mostra Gesù il Cristo: un essere umano de-liberata-mente sovrano, perché liberato finalmente da tutte le illusioni e i veleni che questo mondo, e la morte che lo ispira e lo impasta, infiltra nella nostra carne mentale?
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Vogliamo consacrare la nostra vita alla speranza di fare esperienza piena di questa felicità? Vogliamo cioè per davvero rivoluzionare questo mondo, e scaraventare nella polvere tutti i signori che ne amministrano le pesti e gli specchi deformanti?
Non c’è infatti sovversivo più pericoloso dell’uomo che si consacri alla ricerca della vera felicità. E non c’è peccato maggiore di rinunciarvi.
Scrive Borges nella poesia El remordimiento: “Ho commesso il peggiore dei peccati/ Che possa commettere un uomo. Non sono stato/ Felice”.
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