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Ancora notizie di stupri, di reati sessuali commessi non da singole persone ma da “etnie” quando il responsabile è uno straniero ma non quando è italiano. Perché i giornali non titolano in questi casi “molisano”, “lombardo” o “emiliano” stupra una quindicenne? E le ronde che organizzano “l’autodifesa” dopo aver accerchiato le vittime prescelte controllano i passaporti o fanno test di lingua per accertarsi di non aver sbagliato nazionalità?

Roma fino a poco tempo fa era la città della tolleranza e della solidarietà e questo valeva anche per il resto del paese. Poi la faticosa ma redditizia cultura della solidarietà e dell’integrazione è divenuta sempre meno visibile perché poco spettacolare e le notizie più succulente hanno iniziato ad alimentare le deformazioni statistiche e l’ignoranza. Quanti sono i romeni stupratori? Uno su diecimila? E la proporzione è significativamente differente rispetto a quella degli italiani? E sugli stupri domestici “invisibili” quali sono le cifre? Poco importa perché a certa politica interessa creare il nemico perché questo rende dal punto di vista elettorale. Salvo poi rischiare di finire come l’apprendista stregone per una legge sociale molto semplice. La cultura del nemico, della repressione non ha nessuna capacità di invertire il clima di violenza. Soprattutto nella grottesca versione nazionale all’amatriciana dove si minacciano le espulsioni di rom che sono per metà italiani e per metà cittadini comunitari. E si organizzano spettacolari sgomberi e distruzioni di campi interrompendo i percorsi di scolarità dei ragazzi, alimentando la gratitudine verso il nostro paese. Gli “uomini forti” (le recenti vicende di politica nazionale ed internazionale lo dimostrano) finiscono vittime della stessa cultura che hanno creato e le loro intenzioni di riportare ordine e sicurezza generano di solito situazioni molto peggiori di quelle che hanno ereditato.rn

Nessuno ignora che il momento è difficile e che il contesto economico non aiuta affatto. E’ dimostrato rigorosamente da più parti che quando lo sviluppo si arresta l’economia diventa un “gioco a somma zero”, la torta non cresce più e la sensazione che la fetta di uno riduca quella dell’altro diventa sempre più palpabile facendo aumentare l’intolleranza (si veda la protesta recente degli operai inglesi contro quelli italiani nel Regno Unito).

Capiamo veramente cosa vuol dire “porgere l’altra guancia” nel senso più profondo. Non fare la parte dei deboli o degli stupidi ma, al contrario mettere in campo la cultura della solidarietà e dell’integrazione, avendo il coraggio di rompere per primi la catena delle recriminazioni e delle rappresaglie. Una lezione di civiltà viene dall’esempio del Sudafrica con i percorsi di giustizia riconciliativa che hanno promosso gruppi di condivisione tra vittime e carnefici dell’appartheid come strumento fondamentale per la soluzione del conflitto accanto a quello della giustizia tradizionale. Non possiamo essere capaci di fare la stessa cosa o forse la nostra cultura è inferiore? Porgere l’altra guancia non è una sciocchezza o una debolezza ma è l’unica strategia razionale e profondamente umana che può portarci fuori da questo circolo vizioso.

Come politici, uomini di cultura, giornalisti, semplici cittadini siamo a un bivio. Possiamo decidere di essere parte del problema o parte della soluzione. Se continueremo ad alimentare la cultura della contrapposizione che inchioda le singole persone alle “farneticanti” responsabilità di gruppo saremo tutti corresponsabili di quello che succede o accadrà in futuro.

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