Una delle differenze tra noi italiani e i nordeuropei chiaramente evidente a chiunque abbia frequentato ambienti internazionali è che abbiamo intuizioni, probabilmente superiori alla media, subito dopo però è come se ci stufassimo o non sopportassimo la fase più prosaica ma essenziale nella quale le intuizioni vanno realizzate e sviluppate con fatica quotidiana, senza il conforto delle gratificazioni tipiche della fase creativa.

Perdiamo così immediatamente ogni credito ricevuto.

E ancora, quello che in epoca preglobalizzazione poteva essere un pregio, la capacità di trovare compromessi e di mediare tra posizioni diverse a costo di rallentare i processi decisionali, nell’epoca della globalizzazione è diventato un lusso non più sostenibile.

Insomma la società di oggi richiede rapidità di analisi, assunzione di decisioni e responsabilità e capacità di perseguire con tenacia lo svolgimento dei progetti intrapresi fino alla loro conclusione. Se la gara competitiva di oggi su cui si gioca il benessere delle nazioni si basa su queste abilità noi partiamo ultimi.

In una fase economica nuova nella quale in pochissimi anni molti paesi in via di sviluppo hanno avviato processi incredibili di convergenza (non è soltanto India e Cina, l’Africa lo scorso anno è cresciuta in media del 5 percento) e l’integrazione globale dei mercati rende i salari ai quali i loro lavoratori sono disposti a produrre una minaccia alle conquiste (unilaterali o uni-continentali) di welfare dei nostri pari grado, l’Italia, per i limiti citati sopra, è rimasta piantata sul nastro di partenza, incapace di opporre una qualsiasi reazione. La conseguenza negli Italiani è stata il crescere di un rancore sordo, di una chiusura a riccio innoi stessi, di una lotta fratricida (anche tra vecchi e nuovi immigrati) a spartirsi le fette di una torta che non cresce ma diventa invece progressivamente più piccola. Siamo arretrati in tutte le classifiche, da quella della scolarizzazione a quella dell’innovazione e della fertilità. La nostra malattia è che, essendo le stagioni di successo ormai lontane nel tempo e avendo perso lo slancio e l’entusiasmo che esse possono dare, non siamo più capaci di futuro.

Non è certo l’arroccamento sui privilegi e il benessere individuale che via via vediamo sgretolare che può alimentare nuove visioni e nuove speranze in grado di spingerci ad investire e ad osare. La speranza può nascere da una visione trascendente che ci spinge incessantemente ad innovarsi, irriducibili ad ogni umano penultimo, e a vivere il nostro divenire in tensione verso una pienezza che sappiamo di non poter pienamente raggiungere. Oppure da un grande ideale laico come quello che animò la parte non credente dei padri fondatori dell’Europa o della classe politica protagonista della ricostruzione del dopoguerra

L’incapacità di invertire questa deriva ha condannato tutti gli ultimi governi a non essere confermati dopo le successive elezioni. Anche nell’ultima tornata elettorale, con lo spostamento verso il centro destra gli italiani hanno sperato in una svolta decisionista in grado di superare i nostri limiti di base per merito di un esecutivo finalmente in grado di affrontare i difficili nodi sul tappeto stimolando merito, produttività e capitale sociale dei nostri cittadini intorpiditi. Il problema del centrosinistra era stato soprattutto quello di una dimostrazione di mancanza di coesione e di speditezza sulle decisioni da prendere e la sensazione che tali decisioni, faticosamente partorite, fossero il frutto di una estenuante mediazione interna. Per questo la compattezza del centro-destra sembrava una garanzia.

Gli eventi di questi ultimissimi tempi ci pongono di fronte ad un dilemma sostanziale: quale prezzo devono pagare gli elettori del centro destra (e tutto il paese) per aver fatto sì che un governo con larga maggioranza possa finalmente decidere speditamente per il bene del paese ?

Fatta esclusione per le capacità di alcuni ministri di valore e con molte proposte apprezzabili (Tremonti, Brunetta, Sacconi, bella tra le altre l’idea di offerta agli statali a fine carriera di ridurre lo stipendio in cambio di attività di volontariato) i vecchi fantasmi sono tornati. Una parte delle scelte (o speriamo solo delle dichiarazioni) di questo governo sembrano fatte apposta per soddisfare quel rancore sordo degli italiani che stanno subendo la globalizzazione rischiano di fare danni seri al paese.

In primo luogo, lo scontro con la magistratura nel quale non si fa pudore di voler scompaginare il sistema processuale italiano con la sospensione dei processi pur di risolvere problemi personali (che ha portato a dire diamo subito l’immunità al premier per evitare guai peggiori). Successivamente, la proposta di rispedire a casa decine di migliaia di lavoratori immigrati non regolarizzati che contribuiscono all’ossatura del paese in lavori importanti e delicati (badanti, baby sitter, operai): come volersi dare un’accettata sulle gambe.

C’è bisogno di spararla grossa per costruirsi una reputazione di paese attento a reprimere i fenomeni di devianza posti in atto da cittadini non italiani (metà dei rom in realtà sono italiani…) e premiare invece gli sforzi d’integrazione ?

La risposta è sì perché non è la soluzione razionale del problema ciò che si cerca, quanto la capacità, molto più pagante nei sondaggi almeno di breve periodo, di soddisfare quel rancore sordo di cui parlavamo.

rn

 
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