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All’indomani dell’emanazione del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29, con cui il Governo ha “interpretato” la normativa elettorale per le Regioni Lazio e Lombardia, alcune riflessioni di taglio costituzionale sono possibili su questa (francamente squallida) vicenda.
Menzioniamo en passant la questione di fondo: quella del rapporto fra “valori” (il valore della democrazia e della partecipazione al voto con eguali chances dei principali competitori e con possibilità di scelta per i cittadini fra le principali opzioni in campo) e “regole”
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in cui essi siano tradotti, in quanto va da sé che i primi sono assiologicamente prioritari alle seconde, ma in una competizione che richiede regole procedurali precise e, fra l’altro, termini perentori, i primi si traducono nelle seconde, e passano attraverso di esse. Su questo nodo delicato – che non riguarda solo la politica, ma il modo di pensare diffuso in questo Paese – sarà bene poi sviluppare una riflessione “a bocce ferme”.rn

Nel caso delle liste elettorali in Lazio e Lombardia si era davanti a un conflitto regole-valori? Forse si, ma soprattutto si deve evidenziare il diverso rilievo della questione, se vista ex parte principi o ex parte populi.

Ex parte principi, cioè dal punto di vista dei governanti, la questione era chiara: chi non aveva rispettato le regole avrebbe dovuto portarne – come accade ad ogni cittadino – le conseguenze. Per negare questo evidente assioma, sarebbe stato necessario ritenere che i governanti – a differenza dei governati – siano al di sopra delle leggi: il che contrasta con l’essenza del costituzionalismo.

Vista ex parte populi, cioè dalla parte dei governati, in questo caso nella loro veste di cittadini elettori, con il loro diritto a scegliere fra le opzioni politiche realisticamente esistenti in un dato momento storico, la questione stava però diversamente: ed un qualche intervento correttivo della situazione verificatasi in due delle principali Regioni italiane era verosimilmente opportuno. Distinguendo, però, anche qui, fra due fattispecie ben diverse: quella della lista PDL nella circoscrizione provinciale di Roma, nella quale, a quanto è dato di capire, si era davanti alla mancata presentazione di una lista nei termini previsti dalla legge, e quella del “listino” regionale del Presidente Formigoni in Lombardia, bloccato da irregolarità formali non essenziali. E con conseguenze diverse anche per gli elettori: nel primo caso sarebbe stata assente dal voto solo la lista provinciale del PDL, ma gli elettori di centro-destra avrebbero potuto esprimersi per le altre liste della coalizione (e per le stesse liste del PDL, nelle altre province laziali), oltre che per la candidata presidente, mentre nel secondo la competizione sarebbe stata del tutto snaturata, per l’assenza dell’intero centro-destra.

Di fronte a questi pasticci – responsabilità pressoché esclusiva della coalizione di governo, che sarebbe stato dignitoso che fossero riconosciuti da quest’ultima, come forse sarebbe accaduto in altri Paesi – le soluzioni tecnicamente possibili erano diverse. Premesso che una delle due controversie poteva trovare – ed ha effettivamente trovato – soluzione con un normale ricorso al giudice amministrativo (il TAR ha riammesso alla competizione il listino Formigoni già sabato 6 marzo, senza bisogno di applicare il decreto-legge del Governo), un intervento sulla normazione vigente avrebbe richiesto l’uso della legge e, data la ristrettezza dei tempi disponibili, dello strumento costituzionalmente previsto per surrogare quest’ultima in casi di necessità ed urgenza: il decreto-legge.

Il primo problema si poneva qui: è ammissibile il ricorso al decreto-legge in materia elettorale? La Costituzione, certo, non lo esclude espressamente da quest’ambito, nel quale il ricorso ad esso è giustamente ritenuto costituzionalmente molto problematico. Del resto la legge n. 400 del 1988, che disciplina in via generale l’attività di governo, esclude l’uso del decreto legge in “materia elettorale” (facendo rinvio all’art. 72, 4° comma, Cost.). Ma la prassi conosce numerosi casi di decreti-legge in materia elettorale, sia pure su aspetti marginali e per lo più non controversi, anche se almeno uno di essi, adottato nel 1995 dal Governo Dini per riaprire i termini per la presentazione delle liste su richiesta dei “soliti” radicali, fu lasciato decadere dal Parlamento, che decise di non convertirlo in legge.

Il ricorso al decreto-legge su questa materia è dunque certo problematico, ma non del tutto implausibile: l’urgenza vi era sicuramente, la necessità anche, almeno secondo l’apprezzamento politico del Governo, cui tale valutazione compete.

Quanto al contenuto possibile del decreto, si potevano immaginare, come si diceva, varie soluzioni: il rinvio delle elezioni di alcune settimane, con riapertura del termini per la presentazione delle liste; la semplice riapertura dei termini per la presentazione delle liste, senza rinvio delle elezioni; l’introduzione di una procedura per sanare entro un termine breve le irregolarità formali delle liste che fossero state presentate nei termini, stabilendo, in via transitoria, la validità di tale norma anche nella consultazione elettorale in esame (ma questa innovazione – ipotizzata dal Prof. Luciani su Repubblica del 5 marzo – avrebbe inciso sul caso Lombardia, cosa rivelatasi poi non necessaria, e non sul caso Lazio).

La soluzione prescelta nel decreto-legge n. 29 del 2010 è stata invece quella di un “decreto interpretativo”, che ha come obiettivo di fornire l’interpretazione autentica delle norme della legge elettorale per le Regioni del 1968. Esso stabilisce, da un lato, che le irregolarità meramente formali nelle sottoscrizioni delle liste non invalidano le firme stesse se gli elementi mancanti siano comunque desumibili dalla documentazione presentata; e dall’altro che “il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale” e che “la presenza entro il termine di legge nei locali del Tribunale dei delegati puo’ essere provata con ogni mezzo idoneo”.

Si tratta, in entrambi i casi, di norme ad hoc, modellate sui casi lombardo e laziale. Ma pare francamente difficile sostenere che tali disposizioni abbiano carattere meramente interpretativo e non innovativo (pur fatte salve tutte le difficoltà di distinguere nettamente fra interpretazione e innovazione). E ciò soprattutto nel caso della norma “salva-Lazio”, la quale, fra l’altro, presenta profili risibili: chi considererebbe seria una norma che stabilisse che ha diritto di salire su un treno chiunque si trovi nella sala di attesa (e non sul treno) all’orario previsto per la partenza?

Un ultimo profilo cui accennare riguarda i rapporti fra Governo e Capo dello Stato in questa vicenda. Anche in questo caso, come in altri precedenti (soprattutto il caso Englaro, nel febbraio 2009), il Presidente della Repubblica ha interpretato il proprio potere di emanazione dei decreti-legge come un potere sostanziale, vale a dire come una facoltà sia di emanare, sia di non emanare il decreto, in base ad una valutazione di “manifesta incostituzionalità”. Peraltro, la Costituzione italiana non attribuisce al Capo dello Stato la facoltà di rifiutare l’emanazione di un decreto avente valore di legge o di un regolamento, ma unicamente quella di accertare che un decreto formalmente vi sia e sia stato deliberato nelle dovute forme dal Consiglio dei Ministri. Fuori da questo caso estremo – e, forse, dal caso in cui gli effetti prodotti dal decreto legge siano non solo gravemente incostituzionali, ma anche in fatto irreparabili anche mediante una successiva dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale – al Presidente della Repubblica si dovrebbe riconoscere il potere di formulare rilievi al Governo, di suggerire spazi di riflessione, anche di dichiarare pubblicamente la propria contrarietà al decreto, ma non il potere di opporvisi, rifiutandone in via assoluta l’emanazione. Nel nostro sistema costituzionale, infatti, il Presidente della Repubblica è un organo politicamente irresponsabile (art. 90 Cost.), e dovrebbe essere considerato un organo “a competenza di attribuzione”, vale a dire dotato unicamente dei poteri espressamente conferitigli dalla Carta costituzionale.

Nel caso di specie, il Presidente della Repubblica ha negoziato il contenuto del decreto con il Governo, ed ha imposto la soluzione del decreto “interpretativo”, a suo avviso non manifestamente incostituzionale, a differenza di quanto sarebbe accaduto con un decreto che avesse riaperto i termini per la presentazione delle liste.

Ma la tesi di Napolitano appare difficilmente sostenibile, poiché il decreto-legge è innovativo e non semplicemente interpretativo: dunque o è incostituzionale anch’esso, come lo sarebbe stato quello inizialmente proposto dal Governo, o viceversa è legittimo, come lo sarebbe stato quest’ultimo.

Del resto, questa rivendicazione, da parte del Presidente della Repubblica, di margini di apprezzamento sulla emanazione dei decreti legge meriterebbe maggiore ponderazione. Il decreto-legge è infatti adottato, ai sensi dell’art. 77 della Costituzione, sotto la responsabilità del Governo. Dunque nessun biasimo al Capo dello Stato può essere rivolto per la sua emanazione. Ma se si sostiene (come il Presidente Napolitano sostiene) che il Presidente ha un potere di controllo che può mettere capo o meno alla sua emanazione, allora diventa difficile continuare a tenere il Presidente della Repubblica al riparo dalle critiche relative all’adozione di un decreto. In altre parole: o il Presidente non ha il potere di impedire l’adozione di un decreto, e allora non porta la responsabilità qualora esso sia adottato; oppure può impedirlo se lo ritiene incostituzionale, e allora condivide, sia pure in parte, la responsabilità per l’adozione del decreto, e sono evidentemente legittime le critiche rivolte, non solo verso il Governo, ma anche verso il Capo dello Stato. Questa è infatti la elementare conseguenza del nesso fra potere e responsabilità (“la ou il y a le pouvoir, la il y a la responsabilité”), che comporta la soggezione del Presidente a critica per atti in cui ha un sostanziale potere di scelta.

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