Le cause prossime della crisi finanziaria mondiale sono ormai note nei loro dettagli.

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Primo, l’errore (delle società di rating e delle finanziarie che hanno costruito i multiname credit derivatives) di pensare che aggregando singoli prestiti rischiosi (i mutui subprime) si sarebbe potuto diversificare il rischio senza considerare che l’azzardo su cui erano stati costruiti (la crescita persistente dei prezzi degli immobili) era non diversificabile e la bolla dei prezzi poneva le premesse per uno shock in grado di colpire tutti i singoli mutui.

Secondo, una regolamentazione strabica che “fermava le ambulanze ai semafori e lasciava sfrecciare le auto da corsa in pieno centro abitato oltre i limiti di velocità”, ovvero che stabiliva requisiti patrimoniali severi per i prestiti alle piccole imprese o alle imprese sociali ma nessun controllo per gli intermediari finanziari che ponevano in essere le transazioni più rischiose (i monoline insurers, i SIV, ecc.).  

Gli errori sul campo erano avallati da errori teorici gravi nella teoria della finanza. Tra tutti, l’idea che fosse possibile ridurre il rischio distribuendolo tra diversi soggetti ed allontanandolo dalla banca che aveva erogato il mutuo originario. In realtà, in un contesto di asimmetrie informative, di prodotti complessi di cui soltanto pochi giovani matematici conoscono le reali caratteristiche, la pressione sui risultati a breve ha incentivato comportamenti opportunistici ed eccessiva assunzione di rischio finendo per aumentare enormemente i rischi sistemici.

Le soluzioni proposte presentano alcuni seri limiti e vanno ulteriormente integrate. Il fondo di 700 miliardi di dollari è poca cosa di fronte ad un volume nozionale dei credit derivatives uguale al PIL mondiale (circa 26 trilioni di dollari). Non ha la forza di invertire l’umore del mercato e avremo bisogno di un lungo periodo per smaltire gli eccessi nel quale il panorama bancario muterà profondamente e le banche sane potranno capitalizzare quelle decotte.

Le misure che sicuramente vanno affiancate al fondo per sperare di cambiare l’orientamento dei mercati (che potrebbe persino produrre dei capital gain nel fondo stesso limitando l’onere per i contribuenti) sono quelle della riforma della regolamentazione (requisiti patrimoniali anticiclici e che evitino una leva sproporzionata sottoponendo a controlli tutti gli intermediari e non solo le banche) e di una rinegoziazione dei mutui che aumenti il merito di credito dei mutuatari con effetti positivi sia sul valore dei credit derivatives che sui problemi sociali che la crisi sta determinando.

Se vogliamo risolvere il problema dobbiamo però soffermarci sulle cause remote. Il mercato è un’istituzione fragilissima che ha bisogno di regole per funzionare. Lo negano solo coloro che, da posizioni di forza, hanno o pensano di avere vantaggi dalla deregolamentazione selvaggia, salvo poi non accorgersi che stanno ponendo le premesse per il loro stesso fallimento.

L’idea che la salvezza possa venire dalle regole e dalle strutture è una mera illusione. Le buone regole sono condizione necessaria ma non sufficiente. Il mercato per funzionare correttamente ha bisogno di virtù civiche e morali che esso non è in grado di generare. Una cultura miope e dogmatica, uno sguardo avvilente sulla realtà ha promosso un’antropologia distorta secondo la quale la soddisfazione di vita dipende da arricchimento e consumo compulsivo. Gli psicologi illustrano chiaramente come questo percorso sia caratterizzato da alternanza di euforie e depressioni che spiegano molti dei comportamenti che hanno determinato la crisi. Gli studi sulla felicità in realtà sconfessano questa visione dimostrando la validità di un’altra prospettiva che si va pian piano affermando nella stessa scienza economica. Siamo persone fatte di relazioni e non individui e la nostra soddisfazione cresce nella misura in cui promuoviamo il benessere altrui assieme al nostro inserendo elementi di gratuità e di dono nei comportamenti economici definiti sulla base di regole contrattuali.

Un’economia che traduce tutto questo in realizzazioni concrete già esiste. E’ quella dei crediti cooperativi, delle banche etiche e popolari che rimangono fedeli alle loro origini. Della micro finanza che raggiunge oggi quasi 400 milioni di non bancabili nel mondo. Del consumo responsabile che sta diventando fenomeno di massa grazie all’adozione dello stesso da parte di grandi attori del mercato (Starbuck è ormai il principale venditore, Ebay ne promuove il mercato on line con una piattaforma dedicata, Sainsbury e Tesco riconvertono i loro acquisti di banane in 100 percento equosolidale facendo balzare la quota di mercato oltre il 25 percento).

Dobbiamo ripartire da capo favorendo l’azione di questi enzimi che possono creare valore sociale ed ambientale assieme a valore economico dando nuova dignità e funzioni al mercato, che diventa attraverso essi piazza dove acquistando, si promuove anche sviluppo ed inclusione degli ultimi favorendo pari opportunità e sviluppo.

La più grossa stupidaggine della cultura oggi in crisi è stata quella di pensare che etica ed economia siano due cose separate. Etica vuol dire scala di valori e tutte le nostre azioni e scelte di policy sono orientate ad un’etica o ad un’altra.

Per risolvere la crisi promuoviamo le energie dal basso della società civile. L’economia della cura e della mano visibile (quella che si tende verso l’altro) può aiutare e curare la mano invisibile e il mercato.

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