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A differenza di quanto generalmente si crede, la legislazione italiana in tema di contrattazione collettiva e relazioni industriali è fra le più liberiste in Europa: poiché non è mai stata emanata una legge sindacale, infatti, le relazioni fra le organizzazioni dei lavoratori e le imprese si fondano essenzialmente su rapporti di forza. In passato, la legislazione aveva assicurato una rappresentanza sindacale sui luoghi di lavoro anche nelle imprese che non aderivano al sistema di Confindustria, ma questa disposizione dello statuto dei lavoratori (l’art. 19) è stata abrogata da un referendum popolare del 1995.

La vicenda merita di essere ricordata: le sigle “di base” intendevano eliminare ogni filtro alla rappresentanza sindacale, così da poter agire al pari delle organizzazioni confederali; per il referendum, erano stati predisposti più quesiti: uno di questi, però, era stato malaccortamente formulato così da estromettere dalle rappresentanze i sindacati che non avessero sottoscritto l’accordo collettivo applicato. CGIL, CISL e UIL riuscirono ad orientare l’elettorato e solo quest’ultimo quesito fu approvato dal voto popolare. Ne risultò la marginalizzazione del sindacato autonomo, ma veniva meno ogni formale tutela legislativa per il sindacato in azienda.   Al momento, le organizzazioni sindacali confederali non si resero conto del prezzo pagato perché il ruolo politico che esse seppero acquisire attraverso questa vicenda fu enorme: nella stagione della crisi della politica e dei partiti, i confederali erano i soli capaci di orientare quella parte dell’elettorato che poteva “fare la differenza”. Era la stagione in cui la riforma delle pensioni veniva scritta al tavolo della concertazione, e i segretari potevano permettersi di rifiutare il posto di vice-primo ministro (D’Antoni) o di leader della sinistra (Cofferati).   Sino a che il peso politico del sindacato era stato elevato, l’assenza di una tutela legislativa era rimasta nascosta, grazie anche al  fatto che le parti sociali avevano, sostanzialmente, agito in maniera cooperativa. Questa caratteristica è però venuta alla luce quando, anche da parte datoriale, si è voluto condurre sino in fondo una politica di scontro.

La situazione, a ben vedere, è nuova per tutti: per le organizzazioni sindacali che non hanno saputo approfittare della lunga stagione di centralità politica e di grande seguito fra i lavoratori per tradurre in legge un sistema di regole certe; per gli imprenditori italiani che, malgrado ogni dichiarazione contraria, hanno subito l’iniziativa del vertice FIAT; per il governo che è distratto da tutt’altre faccende.  

Non si tratta però di una tempesta di breve durata: le scelte cui sono chiamati gli attori  del sistema sono state a lungo rinviate e richiedono ora coraggio e intraprendenza. Nel passato, gli accordi sono stati firmati solo all’unanimità: questo voleva dire che una minoranza organizzata poteva bloccare tutto. Fino al referendum del 1995, erano stati i COBAS che avevano preteso di svolgere un ruolo di interdizione. Ora è una parte della CGIL (e della stessa FIOM) a voler ricoprire quel ruolo.   Il sistema dell’unanimità può essere coltivato solo nei momenti in cui ognuna delle parti riesce a moderare le proprie pretese: esso mostra però tutti i suoi limiti quando le scelte si fanno più drammatiche e il dissenso non può che emergere. Per questi momenti, il solo criterio che vale è quello della maggioranza, come del resto prevede la nostra Costituzione all’art. 39, mai sul punto attuato.

  È chiaro allora come la vicenda di Pomigliano e la successiva disdetta del contratto collettivo nazionale non nascono dal nulla o da un capriccio della direzione aziendale; i fatti di questi giorni rappresentano il normale sviluppo della strategia che le stesse organizzazioni sindacali hanno perseguito negli ultimi anni, forse senza rendersi conto che procedevano lungo il ciglio di un burrone.   Certo, la disgregazione del sistema della contrattazione collettiva non appare come un pericolo immediato, ma è chiaro che l’esempio dei meccanici può ripetersi ben presto in altri settori dove maggiori sono le tensioni sugli aspetti retributivi e dove la dispersione sul territorio è maggiore (penso all’artigianato, al commercio o all’edilizia, ma anche all’alimentare o al tessile).   Appare chiaro allora che non si può confidare semplicemente che tutto si sistemi e che possa riprendere l’andazzo di un tempo: chi rischia di farne le spese è il contratto collettivo nazionale, la cui centralità, peraltro, è ormai da anni in discussione. Dopo venti anni passati a parlare (peraltro quasi inutilmente) di federalismo, l’idea che il salario possa essere determinato in maniera unitaria per tutto il territorio nazionale appare antiquata e inattuale, mentre è in crisi la contrattazione di secondo livello, che avrebbe dovuto assicurare una adeguata differenziazione. Ed è chiaro come, in assenza di interventi statali capaci di garantire una maggiore produttività, la concorrenza finisce per scaricarsi sul costo del lavoro (l’assenza di una adeguata politica industriale e formativa sta creando danni indicibili).   Pare difficile, dunque, che le parti sociali riescano da sole a ricomporre il dissidio: l’accordo del gennaio 2009 sugli assetti contrattuali è troppo debole e dà la misura dello scarso spirito d’innovazione di cui soffrono ormai da anni le nostre associazioni sindacali e imprenditoriali. Il governo, però, sino ad ora è rimasto estraneo alle vicende per il timore di scontentare qualcuno: nei momenti di crisi, invece, servirebbe qualcuno capace di rimettere le parti attorno ad un tavolo per trovare una soluzione condivisa e servirebbe inoltre uno sforzo congiunto di tutte le istituzioni, per tutelare la produttività del lavoro: gli enti locali dovrebbero migliorare il sistema dei trasporti e governare meglio il territorio; le università dovrebbero collaborare con le imprese per innovare i prodotti; il sistema formativo scolastico e professionale dovrebbe saper trasmettere competenze utili per il lavoro.  

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