Ultimamente, però, a trarne ispirazione non sono stati Asterix ed Obelix, ma soggetti della vita pubblica italiana, spesso incaricati di ruoli amministrativi. Non è la pozione miracolosa di un druido a dar forza ai “nostri eroi”, ma la ferma convinzione di poter/dover applicare il diritto, (finalmente) in modo irremovibile. Peccato che ai nuovi barbari, così come forse a quelli vecchi, sia sfuggita la grande lezione di Roma, quella che le sarebbe sopravvissuta nei secoli, come lascito per le società future. E’ la lezione del diritto, di un diritto rigoroso e scientifico, necessario per governare un impero (che è cosa ben diversa da una tribù transalpina!) ed assai più profondo di una semplice consuetudine dettata dal buon senso di contrada. Un diritto ben conscio delle proprie potenzialità, di quelle costruttive come di quelle distruttive. Il diritto, infatti, è lo strumento mediante il quale l’uomo cerca di affermare la giustizia (non a caso, in latino, si dice jus), ma che può anche contenere in sé il pericolo di generare il suo opposto. L’idolatria del diritto, la sua affermazione cieca ed irrazionale ne possono fare uno strumento di ingiustizia. Summum jus, dicevano i romani, summa iniuria!rn
E la summa iniuria che sembra stia diventando consuetudine è quella invalsa, da qualche settimana, in alcune scuole e paesi del nord Italia dove i bambini, le cui famiglie sono morose nei confronti dell’amministrazione comunale, vengono lasciati senza pranzo o esclusi dalla mensa scolastica. Prima era successo a Montecchio maggiore, nella cui scuola alcuni alunni hanno visto consegnarsi, per il pranzo, pane ed acqua. Qualche giorno fa è stata la volta di Adro. Alcune famiglie hanno visto rincasare gli scolari con una lettera in cui si avvertiva i genitori dell’esclusione dei figli dalla mensa, se non avessero provveduto tempestivamente al saldo di quanto dovuto. Ovviamente le dirigenze scolastiche e le Amministrazioni comunali hanno motivato in punta di norma la sofferta inevitabilità di tali scelte, consolidate, peraltro, da un principio che sembra il balsamo di ogni male: «così è stabilito per legge». La legge lo dirà pure, ne siamo certi. Come pure siamo certi che molte persone, coinvolte anche loro malgrado in queste, o in similari, vicende, a questa legge avranno dato attuazione in modo assai contrariato.
Resta però l’immagine triste di bambini – uno, due o trenta, importa poco! – che senza sapere perché, magari anche per colpa dei propri genitori, si saranno visti infliggere l’umiliazione di essere trattati come pezzenti. Resta la tristezza di un Paese che diventa sempre più indifferente al divario tra ricchi e poveri e che, in modo impressionante, esorcizza quest’indifferenza con il cinismo. Fosse anche quello alla buona dei solerti amministratori della Lega. A questi onesti reggitori della cosa pubblica e fedeli servitori della legge, dovremmo ricordare la lezione di Roma. Una lezione che ci dice che il diritto nasce laddove c’è una comunità (ubi societas, ibi ius). Se, dunque, si smarrisce il senso della comunità (e della solidarietà che trasforma tanti singoli individui in una società), a poco varrà cercare nelle norme il principio che la tenga unita. Qualcuno potrebbe replicare che tutto ciò è meta-diritto. Che attiene, cioè, ad un ordine umano che precede la formazione dello Stato. Ma ciò che sta alla base di uno Stato, come di un Comune, sono i bisogni e le speranze delle persone, soprattutto di quelle più fragili come possono essere i bambini. Ciò che il diritto persegue e che gli amministratori devono cercare di realizzare è, dunque, il “bene comune”. Se non si tiene a mente questo, non vi sarà ius(titia), ma soltanto iniuria; non ci sarà civitas, ma barbarie. Chi non tiene a mente questo, invano crederà di governare un “comune”; invano, crederà, di perseguire il “bene”.
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