Nel programma di questo governo figurava la proposta del quoziente familiare, ma nei provvedimenti recenti, a partire dal DPEF, la questione è scivolata in secondo piano: da quanto si comprende gli spazi per un politica della famiglia sono affidati alla ripresa economica, sulla quale tuttavia nemmeno il governo è molto fiducioso, a causa della crisi internazionale.

Bisogna con onestà riconoscere che la politica per la famiglia è da decenni nei programmi elettorali di tutti i governi di ogni orientamento, ma che poi, sul piano pratico non si traducono in provvedimenti concreti o quando cercano di farlo, come nel precedente governo, sono frenati da pregiudizi difficili da comprendere. Come nel caso di un artificiosa contrapposizione fra assegni al nucleo familiare (di centrosinistra) e quoziente familiari (di centrodestra), quasi che fossero strumenti fra loro incompatibili e non invece complementari.
Ci troviamo in realtà di fronte a una grande questione culturale che si riflette poi anche nei comportamenti politici: la famiglia viene semplicemente considerata come uno dei molti soggetti sociali che possono essere beneficiati da manovre di trasferimenti monetari o in natura.
Il punto centrale, e culturale, dovrebbe invece essere il riconoscimento delle famiglie quale soggetto elementare delle decisioni economiche: le indagini statistiche ci confermano che, non sorprendentemente, le decisioni di coppia sono in gran parte di comune accordo. E quando accade stabilmente il contrario, cioè che l’accordo non ci sia, è la coppia che entra in crisi.
Di conseguenza qualunque politica economica dovrebbe avere come riferimento di base l’unità familiare e, per quanto riguarda gli aspetti economici, il reddito familiare. Il salario è invece solo una grandezza individuale e fa ovviamente una grande differenza se con quel salario ci si viva da soli o in quattro, oppure se in famiglia entrino due redditi da lavoro anziché uno. Il non tenerne conto depotenzia in partenza qualunque manovra di riduzione della pressione fiscale perché, se basata sui redditi individuali, rende in realtà imprevedibili le decisioni di spesa che sono invece basate sul reddito familiare, oltre che ovviamente senza alcuna base di equità.
Per quanto riguarda il quoziente familiare occorre chiarezza culturale e onestà intellettuale. Se un individuo paga sul suo reddito un’aliquota maggiore d’imposta solo perché l’inflazione ha sospinto i suoi redditi in uno scaglione di imposta più elevata, i sindacati reclamano, correttamente, l’iniquità del drenaggio fiscale. Se una donna che svolge lo stesso lavoro di un uomo viene pagata con un salario più basso si denuncia, altrettanto correttamente, un problema di discriminazione. Nel caso della famiglia sono presenti entrambe le due componenti, ma per inerzia culturale non vengono riconosciute come tali.
Il quoziente familiare non è, in un certo senso, una misura a favore della famiglia: il quoziente elimina semplicemente la progressività d’imposta legata al diverso numero di componenti. Il “fascino” del quoziente familiare, come è stato definito, è molto poco attraente: in realtà si tratta di una incomprensibile “discriminazione”, in particolare a danno di chi ha più figli, proprio in un paese dove fra poco il problema più urgente sarà quello della “casa” al cimitero. La cifra che circola di 10 miliardi, viene elegantemente liquidata come un “costo” improponibile per le casse dello Stato: non ci rende conto che con ciò si afferma che il bilancio dello Stato viene fatto dipendere dalla discriminazione sui più deboli, in particolare i bambini. Con il quoziente familiare vedremmo invece diminuire la povertà infantile, ai massimi proprio in Italia, e si potrebbe da quel momento in poi iniziare a ragionare di una autentica politica per la famiglia.
L’obiezione più forte all’introduzione del quoziente familiare è l’idea che diminuirebbe l’offerta di lavoro femminile: in realtà è un’obiezione fragile e difficile da sostenere. Non è quanto è avvenuto in Francia, patria delle politiche familiari oltre che del quoziente, dove il tasso di occupazione femminile è in costante aumento, ignora il tempo di lavoro per la famiglia e i figli e soprattutto trascura il fatto che in Italia il tasso di occupazione è molto più basso al Sud, dove minore è la domanda di lavoro. Una politica per la famiglia può invece aiutare il paese a crescere, creare domanda di lavoro per le donne e soprattutto aprire una finestra di speranza sul futuro.
Inoltre va ricordato ciò che troppo facilmente si dimentica e cioè il fatto che l’Italia spende molto meno di Germania e Francia a favore della famiglia, almeno 1-2 punti di Pil cioè circa 15-30 miliardi di euro. E’ qui il caso di ricordare un risultato empirico recente dal quale emerge con chiarezza come i paesi europei nei quali è maggiore la quota sul Pil della spesa per bambini, famiglia e disabili, sono anche quelli nei quali è più efficace la politica di trasferimento monetari, misurata come riduzione del rischio di povertà, ex-ante ed ex-post.
Ma nel frattempo tutti i paesi europei sono in movimento: in Germania, dove già gli assegni al nucleo sono di 154 euro per ogni figlio, e di 179 dal quarto in poi, è stato allungato a 12 mesi dal momento della nascita l’aspettativa dal lavoro, estendibile a 14 se anche il secondo genitore ne usufruisce, con il 67 percento dello stipendio e un massimo di 1800 euro mensili. E a ciò si aggiunge il programma di costruire 500 mila nuovi posti negli asili-nido. In Spagna, Zapatero ha deciso di offrire alle famiglie un assegno per ogni nuovo nato di ben 2500 euro, nonché di rendere gratuiti gli asili nido fino a 3 anni di età. Oltre a misure di sostegno a favore delle famiglie per 6 miliardi, per attenuare l’impatto negativo della congiuntura economica.
E in Italia ?
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