Non è proprio il quoziente familiare, ma indubbiamente si muove in quella direzione: se e quando il bonus dovesse diventare un provvedimento strutturale, anziché una integrazione una tantum per le famiglie a basso reddito, il quoziente familiare sarebbe l’esito più desiderabile, tanto più in quanto rientra nel programma iniziale del governo per questa legislatura.
Secondo stime recenti il passaggio al quoziente familiare comporterebbe un costo di circa 8 miliardi, il che rappresenta un cifra significativa ma certamente realizzabile, se con ciò si vuole qualificare la politica economica di un governo. Occorre tuttavia far chiarezza sul significato economico di questo meccanismo fiscale: il quoziente familiare elimina la progressività dell’imposta dovuta alla differente numerosità del nucleo familiare, a parità di reddito. In questo senso si tratta di un meccanismo non differente da quelli con cui si elimina il drenaggio fiscale, cioè la maggiore imposta dovuta a causa di un aumento puramente nominale del reddito. Nel primo caso si tratta di una misura di equità orizzontale, mentre nel secondo si parla di una misura di equità verticale. In altre parole il quoziente familiare è una pura misura di equità orizzontale e il cosiddetto costo aggiuntivo di 8 miliardi rappresenta in realtà il maggiore onere che le famiglie monoreddito con figli attualmente pagano in eccesso di quanto in realtà dovuto.
In questo senso il quoziente familiare, se e qualora dovesse essere effettivamente introdotto nel nostro paese, non può che rappresentare un primo tassello di un complesso mosaico di una politica familiare di cui il nostro paese ha urgentemente bisogno, sia per ragioni di efficienze che di equità.
Non è casuale che il solo paese che ancora resiste all’urto del crisi internazionale è la Francia, patria di un’organica politica per la famiglia, di cui il quoziente familiare è parte centrale.
Sul piano dell’efficienza della politica fiscale si trascura il fatto che la fondamentale unità decisionale è la famiglia e di conseguenza la medesima manovra fiscale ha un impatto economico maggiore e più prevedibile se ha come riferimento il reddito della famiglia anziché quello dell’individuo, come tuttora avviene in Italia.
In realtà l’Italia ha il suo quoziente familiare all’italiana che si chiama Isee – l’indicatore della situazione economica equivalente – ma la fondamentale differenza è che questo strumento fiscale viene utilizzato molto più frequentemente per impedire l’accesso delle famiglie ai servizi pubblici, ad esempio gli asili, piuttosto che per favorirle. L’Isee è in realtà fonte di abusi gravi e diffusi, e da teorico meccanismo di equità è diventato fonte di arbitrarietà e ingiustizia. Il problema di fondo è che di fronte alla imponente evasione fiscale che caratterizza il nostro paese l’Isee finisce con l’aggiungere al danno dell’esclusione la beffa dell’onere aggiuntivo, così allontanando anziché avvicinare, i cittadini allo Stato. Fino a che il nostro paese non rientrerà nell’ambito della normalità, la sospensione dell’Isee appare perciò come una auspicabile misura di emergenza, che potremmo definire di equità trasversale, rispetto al reddito e le categorie sociali.
Stiamo attraversando una violenta crisi finanziaria e reale, ma occorre non dimenticare che ormai da quarant’anni stiamo attraversando una crisi demografica ancora più grave e senza precedenti, con ripercussione vaste e pervasive, sul piano economico e sociale.