Si esce la sera, ci si sveglia a mezzogiorno, senza gioia né dolore, in attesa di qualcosa che ha da venire, ma non si sa ben cosa. Il 54% dei giovani tra i 18 e i 35 anni, scrive “El País”, non ha «un progetto su cui riversare il proprio interesse o le proprie illusioni». «Appena si rendono conto di cosa li aspetta continuano a formarsi, viaggiano, lavorano magari come camerieri per pagarsi un master mentre mamma e papà a casa li aspettano».rn
Si considera adulta, nelle scienze sociali, una persona che abbia terminato studi e formazione, sia economicamente indipendente, sia uscita di casa e abbia magari dato vita ad una famiglia sua. Queste tappe sono oggi vieppiù confuse, non c’è un ordine preciso: magari si va via di casa senza avere un lavoro stabile, per andare a stare con amici, si tentano convivenze di prova, si torna sconfitti in famiglia. Il lavoro è precario, oggi c’è e domani non più. Tanti sono i giovani che denunciano la propria difficoltà a lasciare il nido per l’assenza di sicurezza sociale. Ma non è solo questo: il problema vero è culturale ed educativo. Il diventare adulti non è più considerato un valore, o un obiettivo ambito. Si preferisce piuttosto l’essere eternamente giovani, ed è quello che la società suggerisce. La giovinezza del resto è oggi più una categoria dello spirito che una condizione anagrafica, per molti versi slegata dalla condizione biologica. La giovinezza s’è allungata e fino almeno ai quarant’anni ci si può considerare e si è spesso considerati giovani; ma anche dopo, è possibile continuare a sostenere ruoli ed atteggiamenti tipici della gioventù. La vecchiaia è esorcizzata, considerata quasi non più parte della vita, ma una fase successiva: con una bella espressione, politicamente corretta, “terza età”. E dunque: chi ce lo fa fare di diventare adulti? Genitori indulgenti, famiglie protettive, giustificano o accettano l’eterna adolescenza dei figli. Il 25% (un milione e novecentomila) dei giovani italiani tra i 25 ed i 35 anni non studia e non lavora; un milione e duecentomila perché dice di non riuscire a trovare lavoro (anche se diversi ammettono di cercarlo con scarsa convinzione, sicuri che non ci sia), ma ben settecentomila sono “inattivi convinti”: cioè se ne fregano. Meriterebbe di approfondire il dibattito sul fenomeno, perché è evidente che, nel rapporto tra genitori e figli e nella staffetta tra generazioni, qualcosa è andato storto. I padri non hanno saputo comunicare ai figli il desiderio di diventare grandi. Anzi sovente hanno dato pessimi esempi. La crisi economico-finanziaria certo non favorisce fiducia ed entusiasmo: se uno non ha tanta voglia di lavorare, questo non è il momento migliore per mettersi alla ricerca. Così prevale una lunga palude di esperienze raffazzonate e senza meta, nella quale gli individui non si sentono obbligati ad assumersi responsabilità sociali: l’adultità è percepita come pesantezza, costrizione, noia. L’eterno ragazzo è spesso un egoista, incapace di mettersi a servizio della società, incapace di riconoscere un significato nello stare assieme delle persone.
Quel che rimane è la parodia della giovinezza; con orrore il pensiero corre ad un personaggio de La morte a Venezia di Thomas Mann, il vecchio patetico coi capelli tinti e vestito da giovanotto… La giovinezza ha però senso solo se è avvicinamento ai ruoli adulti.