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Il giorno dopo la visita di Monti alla casa Bianca, non c’è traccia del Professore sui quotidiani americani. Anche il Times, che lo mette in copertina nell’edizione europea, su quella americana ha optato per un immagine con dei cani. L’articolo invece c’è. È un articolo interessante che delinea luci e ombre, loda le riforma ma delinea anche il rischio che la window of opportunity in cui il Professore si trova adesso ad operare si chiuda velocemente. E aggiunge un commento pesante: “ Oggi [Monti] regna a Roma come un novello Cesare. In effetti il processo democratico è stato sospeso per permettere ad un tecnico non eletto di portare a compimento politiche che i politici non riuscivano a fare”. Al Congresso, lo Speaker della Camera John Boehner nell’incontro con Monti ha elogiato il ruolo dei parlamenti nella democrazia. Suona quasi come un avvertimento.

Gli americani non usano le parole a caso e la politica estera è essenzialmente realista e di matrice razionale, nella scia di Hans Morgentau e Henry Kissinger. Il ruolo di leader mondiale degli Stati Uniti ne è il principio guida – e non a caso fu il passaggio più applaudito all’inaugurazione di Barack Obama nel gennaio 2009. I repubblicani adesso attaccano su questo: Mitt Romney dice che farà dell’America un paese così potente che nessuno oserà sfidarlo. Le priorità della politica estera americana vengono definite di volta in volta a seconda dell’interesse nazionale del momento, il quale a sua volta viene composto in un complesso negoziato tra gli attori principali: Dipartimento di Stato, Casa Bianca e Congresso. Una volta definita una policy, essa viene applicata con ferrea disciplina ai quattro angoli del pianeta. Gli stati amici sono dunque quelli che mettono in atto politiche estere vicine all’amministrazione USA. Ad esempio, quando si parlava di Cesare Ragaglini come possibile ambasciatore a Washington al posto di Gianni Castellaneta, fu organizzata un’azione di lobby contro questi ed in favore dell’attuale Consigliere Diplomatico del Presidente Napolitano (allora ambasciatore alla NATO) Stefano Stefanini – in quanto reputavano che fosse troppo simpatetico alle posizioni dell’Iran. Ragaglini è stato poi nominato Ambasciatore presso le Nazioni Unite.
In occasione della visita di Monti a Washington il leit motive dei media italiani è stato: “Italy is back”. Tale affermazione presuppone tuttavia che l’Italia fosse ad un certo punto scomparsa. Ciò è allo stesso tempo vero e falso.
Geopoliticamente è vero. Con la fine della guerra fredda, e la conseguente fine della minaccia del comunismo, l’Italia ha perso la sua strategica rilevanza geopolitica. La rendita di posizione di cui aveva goduto per quasi 50 anni è venuta meno. A questo si aggiunga che Barack Obama è un uomo dell’estremo West, laddove la cultura e il way of life sono influenzati dall’Asia, piuttosto che da un’assai distante Europa. Di più, Obama ha vissuto in Asia, quando molti dei suoi predecessori avevano in un modo o nell’altro passato periodi in Europa. Il nuovo Presidente non ha quindi né radici né attaccamento affettivo di alcun genere nei riguardi dell’Europa. Nella prima parte del suo mandato, l’amministrazione Obama ha dunque considerato che l’Europa non costituisse più un problema e che quindi il Vecchio Continente non aveva bisogno di particolari attenzioni. Questa impressione si è accentuata dopo il “reset” dichiarato da Hillary Clinton e Sergei Lavrov il 9 marzo 2009 a Ginevra.
Questo è drammaticamente cambiato in seguito all’arrivo in Europa della crisi finanziaria – onda lunga di quella statunitense ma da cui gli USA, a forza di politiche keynesiane, si stanno ormai rialzando – e con la primavera araba. Quest’ultima ha anche avuto l’effetto di rendere ancora una volta geopoliticamente strategico il nostro paese (e le sue basi aeree e navali). La guerra di Libia ha quindi sancito il ritorno dell’Italia sullo scacchiere geopolitico internazionale. Con lo scaldarsi dei fronti siriano ed iraniano è dunque fondamentale, per gli americani, tenersi buono l’alleato italiano e tenersi stretto, almeno fino al 7 novembre – data delle elezioni presidenziali USA – un governo amico. Abituati all’analisi razionale, al Dipartimento di Stato – e all’Ambasciata americana a Roma – sono ben coscienti, assai più di quanto non appaiano esserlo i politici italiani, che le prossime elezioni potrebbero portare una nuova fase di instabilità politica, considerata la perdita di terreno dei grandi partiti e l’avanzamento dei movimenti di protesta. Instabilità che gli USA vogliono a tutti i costi evitare prima delle loro elezioni. L’intervista a tutta pagina al Corriere del 7 febbraio dell’Ambasciatore americano a Roma David Thorne – persona normalmente schiva rispetto ai media – è un segnale chiarissimo che gli americani vogliono stabilità nel belpaese.
Politicamente, tuttavia, l’Italia c’è sempre stata, spesso anche per fare – nell’ombra – il lavoro “sporco” che gli USA chiedevano, dalla Russia alla Libia, passando per l’Afghanistan. Significativo è ad esempio il famoso cable pubblicato su Wikileaks che l’Ambasciatore in Italia Ronald Spogli scrisse prima di lasciare Roma: “Berlusconi non ci piace ma fa quello che gli chiediamo, quindi ci va bene”.
Il vero problema, politicamente parlando, è che l’Italia– complice il ruolo inflazionato che le circostanze storiche e la posizione geopolitica le avevano attribuito – si è per troppo tempo illusa di essere una “grande potenza” quando nella realtà è sempre stata – per usare le parole di Carlo Maria Santoro – una “media potenza”. È un’illusione collettiva alimentata dalla rete diplomatica italiana – i cui messaggi al contrario dei disincantati cables americani – sono opere di prosa in cui ci si riassicura continuamente che tutto va bene e che tutti ci vogliono bene. Fatte pochissime eccezioni, i politici e la stampa italiani si sono sempre disinteressati della politica internazionale: erano dunque tutti ben contenti di cullarsi in questo clima ovattato e roseo. E, andando a Washington, hanno spesso interpretato le cortesi formule di rito per sinceri attestati di amicizia.
Ci sono poi casi in cui, effettivamente, un rapporto di amicizia si è instaurato tra leader italiani e americani: questo ad esempio il caso del solidale tra Silvio Berlusconi e George Bush jr. o tra Franco Frattini e Hillary Clinton: è stata la stessa Clinton ad affermare pubblicamente come le consultazioni tra i due fossero frequentissime e attraverso vie informali e dirette come i rispettivi cellulari. Al contrario, vi sono casi in cui il feeling non si è mai instaurato: è il caso della coppia George Bush jr. – Romano Prodi o, caso ben più evidente, delle relazioni tra Barack Obama e Silvio Berlusconi. La relazione ha raggiunto il suo punto più basso con il bunga-bunga: ne sa qualcosa Bill Clinton, quasi impeached per via della Monica Levinsky. L’America puritana ha vissuto con estremo disagio le avventure personali dell’ex Primo Ministro e questo ha danneggiato l’azione diplomatica italiana. Una proposta – autorevole benché non di fonte Farnesina – di chiedere a Berlusconi di mediare con Gheddafi, è stata essenzialmente scartata per evitare troppa prossimità con un leader ormai moralmente compromesso agli occhi americani.
In ogni caso, per quanto le buone relazioni personali facilitino indubbiamente le relazioni transatlantiche, esse non possono sostituirsi alla relazione politica perché gli USA, come spiegato sopra, sono un sistema altamente strutturato in cui la politica estera viene definita secondo processi decisionali complessi. Questo non è il caso in Italia dove, anche per la scarsezza di risorse, è spesso il singolo che decide di una politica in assenza di effettiva analisi di supporto.
Per questo, un Monti non fa e non può fare primavera nelle relazioni transatlantiche. Obama ne ha certamente apprezzato la personalità, seria, composta ed un po’ freddina che tanto somiglia alla sua; l’intervista che il Presidente USA ha accordato a Maurizio Molinari della Stampa ne è testimonianza. E, come detto, per il momento Obama ha bisogno che Monti resti in sella.
Ma da qui a dire che l’Italia “is back”, il passo è lungo. L’Italia deve imparare a fare rete e sistema, a utilizzare tutte le sue risorse – dentro e fuori il paese – in modo coerente, coordinato e sistematico. In questo, la visita di Monti ha invece mostrato che non si è ancora capito che è necessario cambiare paradigma. Gelosamente definita e coordinata nei minimi dettagli dal primo piano della Farnesina, la visita ha ricalcato il vecchio stampo tanto caro alla tradizionale diplomazia italiana. Ad esempio, era stato proposto al Prof. Monti – che aveva apparentemente apprezzato l’idea – di organizzare una grande conferenza pubblica mettendo insieme le migliori università e think tanks della città. Sarebbe stata un’ottima e indispensabile occasione per fare public diplomacy sia nei confronti del pubblico americano, che della folta e vivace comunità italiana presente a Washington. Si è invece optato per un evento per soli intimi al Peterson Institute, con Sergio Marchionne e Paolo Scaroni in prima fila, a seguire giornalisti italiani e amici degli amici. Il risultato è stato una quasi patetica sovraesposizione sui media italiani (mica siamo ai tempi del Marshall Plan!) mentre, come detto, nessuna menzione della visita di Monti su quelli americani. Anche stavolta, quindi, il rischio è che in Italia tutto cambi perché nulla cambi; la resistenza della burocrazia pubblica italiana è infatti tradizionalmente e fortemente avversa al cambiamento e all’innovazione; anche questa volta lo ha ampiamente dimostrato.

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