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Il 4 novembre gli Stati Uniti hanno eletto il primo Presidente afromericano della storia. Tuttavia la domanda e’: e adesso?

rnObama adesso e’ a casa a Chicago e sta mettendo a punto le nomice apicali – da Chief of Staff in giu’ – che deve completare il prima possibile. La crisi economica infatti rende necessario accelleare i tempi della transizione (si calcoli che normalmente ci vuole un anno per completare le nomine alla Casa Bianca) e probabilmente ci sara’ qualche forma di partecipazione alla riunione del G20 che si terra’ a Washington il 15 novembre.

Il nuovo Presidente ha di fronte a se’ due grandi sfide: come rispondere alla crisi economica e come non tradire le eccessive aspettative che il mondo ha su di lui.
Da parte loro gli americani sono adesso in piena fase da post-sbornia, con tanto di serie analisi sui giornali di come curare la depressione post-voto. Visto con occhi italiani – che un po’ assimilano la vittoria di Obama alla vittoria in un campionato del mondo di calcio – mi aspettavo francamente un po’ piu’ di festa e di gioia espressa in modo palese, che invece – tranne i neri che ieri si ripetevano l’un l’altro che pensavano di essere in un sogno – tutto e’ tornato nella normalita’.
 
Probabilmente un po’ e’ carattere, un po’ e’ la crisi economica. Per capire l’effetto devestante che essa ha sugli americani – e sul voto – le analisi delle intenzioni di voto mostrano chiaramente un crollo di consensi generallizzato verso McCain in favore di Obama nella settimana del 29 settembre e da li a seguire – è necessario tener presente che essa è assai diversa della crisi che si vive in Europa e specificatamente in Italia.
La borsa e le sue fluttuazioni condizionano la vita degli americani dalla culla alla bara, si potrebbe dire. Ai fondi sono legati i mutui per la casa, le assicurazioni mediche, le pensioni, i risparmi per mandare i figli all’universita’ e via dicendo. Persino la Brookings ha subito un tracollo e sta tagliando furiosamente il budget perche’ la maggior parte dell’endowment e’ basato su azioni e fondi quotati in borsa.
 
Prendiamo ad esempio il caso dei mutui. In Italia i presititi al 100% sono di fatto inesistenti e spesso i mutui vengono garantiti non solo dal bene immobile che viene acquistato, bensì anche da altri beni immobili. Ad esempio, la casa posseduta dei genitori… In America, dove per altro il concetto della casa che si tramanda per generazioni è praticamente inesistente, i mutui del 100% sono prassi comune. Di solito si paga un downpayment relativamente modesto ed una cifra alla consegna della casa (i cosidetti closing costs) (10.000-30.000 dollari). Per inciso, si noti che per aiutare l’acquisto della prima casa da parte delle fasce più deboli della popolazione (e garantirsi la rielezione), il 16 dicembre 2003 George W. Bush jr. firmò l’American Dream Downpayment Act, in base al quale era possibile per le famiglie a basso reddito beneficiare di un contributo a fondo perduto di 10.000 dollari (o del 6% del valore della casa) per pagare il downpayment o i closing costs. L’atto ha avuto validità per gli anni fiscali 2004-2007. È logico pensare che tale atto abbia contribuito ad aumentare l’entusiasmo dei prospettive buyers, quindi le richieste di acquisto e, conseguentemente, il costo delle abitazioni. Gli americani comprano casa perché specie nelle grandi città gli affitti sono proibitivi e, soprattutto, non convengono fiscalmente. Contrariamente a quello che si pensa qui le tasse sono alte e la corsa a scaricare il piu’ costi possibile conseguentemente grande. Si possono infatti detrarre per intero dalle tasse gli interessi, il che rende l’acquisto (e specialmente i primi anni di restituzione del prestito) assai attrattiva. Il problema e’ che quando gli americani si accollano un mutuo per la casa, hanno gia’ sulle spalle quello preso per poter fare l’universita’ ed il fondo in cui mettono soldi per la pensione che verra’. Al quale si aggiunge il fondo su cui versare i soldi per garantire l’educazione degli eventuali pargoli e per chi non l’ha pagata dal datore di lavoro, l’assicurazione sanita’. Insomma, per farla breve, l’americano medio si semte costantemente sotto pressione e se l’economia batte un colpo come quello di settembre va in tilt. Molta responsabilita’ della crisi e’ stata attribuita a Bush ed il 53% degli elettori americani ha finito per scegliere Obama. Ma ne’ Obama ne’ nessuno sa veramente con certezza come fermare la crisi che ci si aspetta durera’ almeno un paio di anni. Per questo gli analisti gia’ prevedono una batosta nelle midterm elections fra due anni, quando gli elettori si renderanno conto che Obama non ha la bacchetta magica.
 
Sul fronte internazionale, le aspettative sono, se possible, ancora piu’ alte, con il culmine nel giorno di festa nazionale proclamato in Kenia. Qui probabilmente la delusione rischia di arrivare prima. Tanto per cominciare Obama ha si’ detto che diminuera’ i soldati di stanza in Iraq ma solo per metterne di piu’ in Afganistan e si aspetta gli alleati facciano altrettanto – cosa che con la crisi economica rischia di scatenare problemi domestici. Su clima e ambiente le aspettative su Obama sono molto alte ma la preparazione per i negoziati a Pozdam in dicembre non sono brillanti e i dubbi su Kyoto 2 altrettanto. Se ad esempio Obama volesse dare una segnale forte del cambiamento di rotta potrebbe chiedere al Senato di ratificare il trattato di Kyoto. Ma qui nessuno, Obama compreso, vuole spendere il proprio capitale politico per un trattato che finira’ nel 2012. 
E che ne sara’ dei prossimi negoziati per il rinnovo del Trattato sulla Non Proliferazione Nucleare? Tre degli alleati USA (Israele, India e Pakistan) dispongono dell’arma atomica ma non hanno firmato il Trattato. Gli Usa hanno pero’ appena firmato un accordo con l’India per lo sviluppo del nucleare civile, questione che ha destato non poche perplessita’ negli stati confinanti. Quale atteggiameto terranno gli USA? Continueranno una politica di due pesi e due misure, con il rischio che stati come l’Iran, ma in prospettiva il Venezuela o altri, decidano che la strategia del free rider e’ migliore e dunque non avranno alcun incentivo a firmare il nuovo trattato?
Last but not least, gli europei. Gli europei si aspettano un nuovo Bill. Obama tuttavia non e’ Bill. Non lo e’ come carrattere, non lo e’ come formazione, ne’ come metodo di lavoro. I suoi consiglieri – fatte limitate eccezioni – non sembrano tenere di molto conto l’Europa (e ancor meno l’Italia!), hanno un attenggiamento diverso da noi sulla Russia e non si rendono conto di quanto il capitale morale e dunque politico degli USA siano precipitati nel mondo durante gli anni Bush. Per fortuna Obama non e’ Bush e adesso ha una chance unica di fronte a se’. Speriamo solo non vada dispersa.
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