Lo “Stato dell’Unione” è un momento importante nella vita politica USA, inaugurato nel lontano 1790 da George Washington a New York. In Italia non esiste un equivalente; piuttosto può essere comparato con il discorso che il Presidente della Commissione europea tiene di fronte alla Plenaria del Parlamento europeo nella sessione di gennaio. I poteri del Presidente della Commissione non sono tuttavia neanche lontanamente comparabili con quelli del Presidente americano. Nello Stato dell’Unione il Presidente USA, capitalizzando su quanto ha già fatto, delinea la sua visione del futuro, annunciando dunque quello che farà. A differenza di quanto avviene nello Stivale – patria della politica-politicante dei discorsi e dei proclami spesso poi elusi nella disattenzione dei cittadini – negli USA gli elettori scelgono i propri rappresentanti sulla base delle soluzioni concrete che esse propongono ai loro problemi, per poi premiarli o sanzionarli con il loro voto. Grande è dunque l’attenzione, tanto che tutte le reti nazionali USA trasmettono il discorso il diretta.
Se analizziamo in prospettiva comparata i sei discorsi sullo Stato della Nazione pronunciati da Bush, vediamo che gli ingredienti sono sostanzialmente sempre gli stessi, per quanto l’enfasi sia di volta in volta andata a questo o quel tema. Lo Stato della Nazione del 2008 non ha fatto eccezione. Le parole chiave dei sette discorsi pronunciati da Bush jr possono dunque essere riassunti come segue: terrore, libertà, economia, tasse, Iraq (e Afghanistan), democrazia, guerra, sicurezza, sanità, libertà, bambini. Negli anni passati Bush ha posto l’accento rispettivamente su terrorismo, sicurezza, libertà (2001, 2002, 2003, 2007), economia (2004, 2005, 2006). Quest’anno, come ci si aspettava, Bush è partito dall’economia, in risposta alla fase di recessione che il paese sta passando, nonostante i recenti ribassi dei tassi di interesse operati dalla FED. La scorsa settimana Casa Bianca, Democratici e Repubblicani hanno raggiunto un accordo cosicché il Congresso dovrebbe approvare già questa settimana il piano di stimolo economico teso a scongiurare la recessione. Non sorprendentemente, Bush ha riproposto la necessità di un intervento il più leggero possibile dello Stato nella vita dei cittadini e la riduzione delle tasse. Ha inoltre sostenuto la causa degli accordi economici internazionali, visti non soltanto quale stimolo economico ma piuttosto nell’ambito di un indissolubile binomio sviluppo economico e sviluppo della democrazia.
A proposito di quest’ultima, ha ovviamente vantato i progressi ottenuti in Iraq e Afganistan, senza dimenticare una carrellata sul resto del mondo, dal Medio Oriente al Sudan (l’America si oppone al genocidio, sic!) alle dittature in Asia. Ma Bush ha anche mandato un chiaro monito a Teheran a fermare gli esperimenti nucleari avvertendo, senza parafrasi, che l’America difenderà i suoi interessi vitali nel Golfo Persico.
Last but not least, bontà sua, dopo aver bocciato a suo tempo il Trattato di Kyoto e nonostante tutti i contrasti in materia con l’Unione Europea, Bush ha chiesto al Congresso di cooperare con lui al fine di contribuire al miglioramento dell’ambiente, in particolare grazie allo sviluppo tecnologico (la riduzione delle emissione è stata al contrario citata solo una volta ed in volata…).
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“The time to act is now”, ha affermato Bush. Ma il discorso è apparso piuttosto una carrellata di cose da fare, facendo naturalmente sorgere il dubbio su a cosa sono serviti i sette anni passati. Non a caso il consenso di Bush è sotto al 50%, tanto che nella graduatoria del Time Magazine del 2007 non è stato incluso nella lista delle 50 persone più influenti. I baldanzosi e ottimistici obbiettivi e la rosea visione del futuro che aveva proposto negli anni passati – a livello internazionale la libertà e la promozione della democrazia nel mondo; a livello domestico essenzialmente la riforma (leggi riduzione) della Social Security, immigrazione, educazione – non si sono prodotti. Nonostante i recenti miglioramenti della situazione in Iraq la questione è ormai tabù negli USA, mentre la situazione economica è assai grigia, nonostante le recenti riduzioni dei tassi di interesse decise dalla Fed. Per altro, paradossalmente, nei primi anni del suo mandato Bush non riusciva a vendere il buono stato dell’economia a causa della guerra in Iraq ed oggi non riesce a vendere i timidi risultati in Iraq a causa dell’economia che collassa. Nello Stato della Nazione Bush non è apparso particolarmente convincente tanto che, nonostante i ripetuti applausi di rito da parte dei Congressmen Repubblicani, le loro facce non esprimevano – a parte poche eccezioni – grande convinzione o entusiasmo. La Presidenza Bush è ormai giunta ormai al suo stadio terminale e questo discorso sullo Stato della Nazione ne è stata una dimostrazione.
Federiga Bindi*
*Jean Monnet Chair all’Università di Roma Tor Vergata e Visiting Fellow alla Brookings Institution (Washington)