Si potrà discutere a lungo se esistessero alternative, se questa fosse la migliore soluzione possibile, se abbiano vinto gli USA e non l’Europa e così via, ma se si guarda dal punto di vista delle dinamiche locali e delle concrete condizioni di vita della gente che in quei luoghi vive e spera in futuro migliore, si dovrà finire con il riconoscere, che – piaccia o no – ormai non vi erano più altre soluzioni disponibili e il rinvio da oltre un anno di questa soluzione annunciata non portava beneficio alcuno a nessuno degli attori in gioco.
Vorrei focalizzare l’attenzione su quattro annotazioni.
1. Lo Statuto del Kosovo. Uno statuto negoziato per il Kosovo, appoggiato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sarebbe senza dubbio stato una soluzione preferibile alla dichiarazione unilaterale di indipendenza adottata lo scorso 17 febbraio dal Parlamento kosovaro. Ma tutti gli sforzi diplomatici fatti in questa direzione non hanno prodotto alcun risultato concreto, se non quello di rinviare nel tempo la decisione, accompagnando una certa evoluzione delle posizioni kosovare e costruendo un quadro che può fare a ragione parlare di "indipendenza assai particolare". D’altro canto, se si potesse fare la storia con i se, si potrebbe argomentare che ben diversa sarebbe stata la storia se ai tempi dei negoziati di Rambouillet, l’allora uomo forte di Belgrado Milosevic non fosse stato così intransigente e avesse almeno fermato i massacri in Kosovo. La storia spesso non va nella direzione che vorremmo e possiamo anche ricordare, per esempio, la storia del Belgio e della sua dichiarazione di indipendenza del 1830, ove si era ribellato per separarsi dal Regno dei Paesi Bassi, dopo di ché i Paesi Bassi hanno atteso 9 anni prima di riconoscere il Regno del Belgio. 200 anni dopo, in Belgio, i nodi non sono ancora risolti, e le radicali divisioni tra valloni e fiamminghi non sono più solo questione di lingua, ma premessa di una quasi possibile separazione dello stesso Belgio in due paesi non comunicanti. Per tornare al Kosovo, è chiaro che il limbo in cui questa provincia ha vissuto dalla fine del 1999 con la risoluzione ONU 1244 era del tutto instabile e insostenibile. Nessuno avrebbe voluto investire in questa situazione assurda, nulla di stabile e permanente si sarebbe potuto costruire senza una soluzione al problema di uno status definitivo e alla fine questa regione sarebbe divenuto quel buco nero delle mafie internazionali che tutti temono.
2. Un caso speciale o il primo di molti altri? Questo è lo spauracchio agitato da alcuni e comunque è una domanda alla quale concretamente nessuno può dare risposte definitive. Senza dubbio questa dichiarazione kosovara è una rottura della legalità internazionale, perché è una secessione unilaterale e di per sé rappresenta un precedente potenzialmente pericoloso. Il Kosovo è senza dubbio anche un caso speciale, ma ogni secessione o dichiarazione di indipendenza lo è. Certo è del tutto strumentale pensare ad un paragone tra le vicende di alcune minoranze etniche in Romania e ai paesi baschi in Spagna, o ancora alla stessa situazione della parte turca dell’isola di Cipro.
Molte maggiori similitudini si potrebbero trovare con altre situazioni di limbo rappresentato da un’altra tormentata regione ai confini dell’Europa e cioè il Caucaso, che si pensi all’Ossezia meridionale o all’Akbazia oppure alla Transnistria in Moldavia. Anche su questo fronte però, pesano assai di più ben altre dinamiche nell’alimentare orrendi massacri, tensioni, nazionalismi o repressioni, che siano gli interessi russi o quelli legati al transito delle gradi reti di trasporto del petrolio verso i consumatori finali che si trovano in Europa.
Assai più probabili sono invece le connessioni e le possibili ripercussioni sull’area dei Balcani in quanto tale. Dalle prospettive stesse della minoranza serba e certo nessuno vorrebbe oggi trovarsi nei panni dei serbi che vivono in una delle enclaves del Kosovo, alle possibili conseguenze sulla Macedonia, ove, è bene ricordarlo, vive una consistente popolazione di origine albanese, ovvero per la Bosnia, in cui sarà difficile fermare le possibile aspirazioni separatiste della Repubblica Sprska, oppure le possibili velleità annessioniste della Serbia. E’ tuttavia bene ricordare che le possibilità di uno Stato di esistere dipendono soprattutto da due fattori non irrilevanti, che possono anche essere disgiunti: il fatto che molti Stati riconoscano il nuovo soggetto come Stato, cosa che sta già avvenendo, e la possibilità di aderire al sistema delle organizzazioni internazionali, ONU in testa. Questo secondo fatto sarà certamente più difficile nel breve termine, per il veto della Rusia, ma come non ricordare che la Svizzera ha aderito all’ONU solo nel 2002 e nulla le ha certo impedito di essere per alcuni secoli uno stato pienamente sovrano.
3. Il ruolo dell’Europa. Bisogna evitare le facili affermazioni demagogiche circa le ripetute divisioni dell’Europa nel riconoscere il nuovo Stato. In primo luogo non evochiamo una politica estera di uno Stato federale che non c’è: non è competenza dell’Unione europea riconoscere o meno un nuovo Stato, ma dei singoli Stati membri. Alcuni dei quali assumono posizioni polemiche o problematiche per esclusive questioni di politica interna (come le elezioni in Spagna) e non certo per una preoccupazione strategica esterna, che intanto sanno gestita. In secondo luogo l’Europa ha giocato e sta giocando una posizione di altissima presenza e livello sulla questione, non solo avendo tentato un negoziato pesante e da protagonista, ma continuando a confermare oggi un ruolo di primo piano nella stabilizzazione della regione, soprattutto con la decisione unanime circa l’invio di una Missione di polizia e di Stato di diritto (EULEX) che costituirà un elemento decisivo del meccanismo di accompagnamento del processo della costruzione dello Stato kosovaro nei prossimi anni. In primo luogo tale missione è stata assunta con decisione condivisa da tutti, ivi compresa l’astensione costruttiva di Cipro, poi si è deciso nelle scorse settimane il piano operativo con una procedura inedita, basata sul meccanismo di silenzio assenso che si è concluso venerdì 15 febbraio, in terzo luogo perché saranno 2000 i funzionari europei, con altri 1000 collaboratori locali, ad occuparsi di polizia, dogane, frontiere, magistratura, ecc. Una missione civile senza precedenti nella storia europea, che si svolgerà di concerto con la presenza della NATO, cui la dichiarazione di indipendenza pilotata del Kosovo intende sottomettersi. Infatti essa afferma alla fine che "il Kosovo avrà l’obbligo giuridico di attenersi alle norme contenute in questa dichiarazione, inclusi gli obblighi previsti dal piano Anthisari". Un insieme di aspetti che fa parlare alcuni di una sorta di protettorato europeo, come passaggio verso una futura adesione, o perlomeno di una condizione di "dipendenza dall’Europa" che somiglia ad altre transizioni internazionali realizzate nel quadro ONU.
In ogni caso, proprio noi italiani, dovremmo ricordare che non ci sono limiti alla fantasia del diritto, quando si tratta di trovare delle soluzioni a situazioni fortemente conflittuali, come ben ci insegna lo status tuttora vigente della provincia di Bolzano, la cui autonomia è garantita dall’Austria …..
4. Il ruolo della Russia. Oggi alza pesantemente la voce, fino a far dichiarare al suo rappresentante a Bruxelles presso la NATO, uomo peraltro proveniente dalla destra nazionalista più integralista, che se la Nato e l’Europa dovessero travalicare i confini della propria missione la Russia non esiterebbe a far ricorso alle proprie forze armate. Certo è che sulla questione serba la Russia di Putin sta giocando pesante, anche per i propri tradizionali legami con il panslavismo e attraverso questi per riaffermare nel mondo una propria posizione politica di potenza globale, che l’Europa e gli Usa hanno per lungo tempo derubricato a questione sepolta con la caduta del muro del 1989 e la fine dell’URSS. Ma soprattutto pensando a bel altri dossier, soprattutto quello degli interessi energetici, con i quali oggi la Russia gioca nello scacchiere europeo e poi mondiale e che vedono la Serbia ormai interamente controllata dalla Gazprom e in prospettiva uno dei canali principali attraverso il quale la Russai distribuirà alle sue condizioni il gas nel sud-est dell’Europa. Da questo punto di vista, il Kosovo, dipendente al 100% dalla Serbia per le proprie forniture energetiche, ha molto da temere. Ma concretamente l’Europa poco o nulla, perché non è certo interesse della Russia una rottura tra Serbia e UE, quanto piuttosto alzare il più possibile il prezzo di un accordo, per lucrare il più possibile sulle forniture energetiche.
Nella partita in gioco nella zona, mi pare che sia le popolazioni locali sia i principali ed eventuali soggetti delle società civili svolgono un ruolo prossimo allo zero. Così come è chiaro che l’Unione europea conferma e rafforza il proprio compito di stabilizzazione nell’area dei Balcani. L’unico vero interrogativo è: avrà la forza di mantenere l’impegno? Il rallentamento dei negoziati con la Croazia, i legittimi dubbi che stanno diventando più consistenti nel dibattito del PE circa la politica di allargamento, come anche il rallentamento dell’iniziativa politica in vista delle elezioni europee del 2009 e della più che probabile nomina di due nuove figure di rilievo – il Presidente permanente del Consiglio europeo e il nuovo Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione – oltre alla nomina della nuova Commissione e del suo Presidente in autunno 2009, non sono certo buon viatico a iniziative più forti. Ma resta il fatto che la macchina dell’Unione, quando è in moto, è capace di mantenere il punto e la direzione come poche altre. E questo almeno è dato confortante.