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L’indipendenza unilaterale del Kosovo sta accendendo, nuovamente, l’attenzione mondiale sui Balcani. Dopo un periodo di silenzio discreto, ma in verità colpevole, gli striscioni, le bandiere, i simboli religiosi, ma non per questo meno patriottici, mostrati con orgoglio in piazza a Belgrado hanno riacceso i riflettori su un clima di tensione in verità mai spento.

Volendo prescindere dalle discussioni che in questi giorni si susseguono affannosamente circa l’opportunità ovvero l’inevitabilità dell’indipendenza unilaterale (si veda, da ultimo, l’Approfondimento proposto da Jahier ), pare interessante volgere lo sguardo sulle conseguenze che questa può avere per gli equilibri mondiali.
 
In queste poche righe non possiamo che abbozzare tre semplici, ma forse non per questo inutili, spunti di riflessione.
 
Innanzi tutto, con qualche felice sorpresa, la vicenda ha comportato una presa di coscienza per una diplomazia europea non sempre all’altezza delle situazioni.
Difatti, con un balzo non scontato di responsabilità e autonomia, l’Unione si è emancipata dal sempre più inefficace ONU, impegnando del personale (civile) e avendo l’obiettivo di sostituirsi progressivamente alla missione “Unmik” delle Nazioni Unite. Con un atto simile l’Unione ha palesato un coraggio che non pareva le si addicesse molto (sol si guardi alle precedenti e confuse, a tacer d’altro, strategie diplomatiche che l’hanno vista fallire dagli anni Novanta proprio nei Balcani).
Un coraggio operativo che mostra, però, qualche difficoltà nel tramutarsi in identità coerente.
Questo è il problema reale dell’Europa. Un continente che sempre più pare non saper coniugare due anime: da un parte una sensibilità “operativa”, funzionale ad obiettivi spesso legati alla dimensione economica; dall’altra una dimensione identitaria difficilmente coesa, molteplicemente ricca ma oggettivamente divisa.
Ed ecco che alla scelta dei ministri degli esteri europei di dispiegare una forza (operativa) è seguito subito il via libera ai (soli) riconoscimenti bilaterali che in sostanza mostrano una Unione non unita, dove le decisioni di un paese non devono incidere in nessun modo in altri paesi. Nessuna novità, perché tale è la situazione (di stallo) da parecchi anni e probabilmente è una prospettiva di non ritorno perché dimostra la vera dimensione raggiungibile in Europa: quella operativo-convenzionale. Il livello della identità è troppo alto per essere deciso a tavolino e però senza voler essere troppo pessimisti siamo d’accordo con alcuni osservatori internazionali nel sottolineare come la questione del Kosovo potrebbe offrire su un piatto d’argento l’opportunità per l’Europa (e la sua identità, mi verrebbe da dire) di riscattare il suo peso sullo scenario mondiale.
 
Come il Kosovo insegna, la dimensione identitaria si cova nelle viscere per anni ed anni prima di poter realmente emergere come realtà. Ora la domanda è troppo scontata per tenerla nascosta: il principio può valere anche per altri? In altri termini, dopo il Kosovo siamo destinati ad assistere ad altre “indipendenze” unilateralmente espresse? La questione è di quelle che invitano a gettare in alto la sfera per discutere di sovranità, legittimazione, autonomia, in un diritto internazionale sempre meno efficace.
Le poche righe che ci separano dal congedo non concedono altro che una breve considerazione: in qualche zona del mondo si potrebbe pensare di cogliere il Kosovo come precedente, ma la responsabilità rimarrà, credo, in mano agli stati nazione. Difatti, mutuando un ragionamento ripreso in questi giorni anche dal “Washington Post”, potremmo giustamente chiederci, lasciando tra parentesi la situazione italiana, se gli albanesi possono essere indipendenti dai serbi, gli Osseti vorranno esserlo dalla Georgia, i Baschi e i Catalani non comprenderanno cosa potrebbe impedire loro di lasciare la Spagna, e se poi andiamo a verificare la situazione di Cecenia, Irlanda, Cipro e, perché no, Tibet non ci è dato neppure immaginare le conseguenze.
Rischiando di semplificare, e molto, permane sempre la medesima questione: quanta sovranità e quale autonomia? Dando per scontata l’esistenza del potere, è preferibile averne una dimensione estesa o una capillarizzazione diffusa? Paradossalmente, nel mondo d’oggi, pare farsi strada la seconda opzione perché maggiormente aderente alla volontà e alla essenza di autonomia che presenta ogni persona, come ogni comunità, regione, etc..
D’altra parte però in questa partita gli scacchi possono essere gestiti, con accortezza, (ancora) dagli stati-nazione: solo se questi, infatti, si renderanno conto delle richieste di “autonomia” e della esigenza di “libertà” potranno portare quello che realmente sono chiamati ad offrire: sostegno, aiuto alle comunità più deboli e non imposizione (magari di identità non riconosciute). Ecco che, tornando al caso che ci occupa, la reazione forte e decisa della Russia seguita all’indipendenza del Kosovo potrebbe non sortire gli effetti desiderati dal Cremlino, mentre un atteggiamento di ascolto (e forse di concessione) nei confronti delle “autonomie” potrebbe ripianare le attuali tensioni presenti.
 
Da ultimo, proprio la situazione Russa ci permette di tornare al tema iniziale. In merito alla vicenda del Kosovo è intervenuto da Mosca anche il Patriarca ortodosso Alessio II denunciando che si tratta di un fatto «anti-storico» e foriero di «eventi assai tragici in vari punti del pianeta». L’affermazione non incuriosisce tanto per il contenuto, quanto per la fonte: con quale scopo interviene così drasticamente un figura religiosa tanto importante?
La domanda forse bisognerebbe rivolgerla all’interessato, ma in questa sede è ammesso collegarla con altro fatto non evidenziato abbastanza dai mass-media. Quando il mondo ha visto la presa di posizione ferma che la Serbia ha attuato, chiudendo tutte le scuole della nazione e organizzando mezzi di trasporto per “incentivare” la protesta in piazza a Belgrado, forse non si immaginava che gli sbandieratori dell’orgoglio serbo (tra cui il noto regista Kusturica) tacessero dinanzi alla grande preghiera per il Kosovo pronunciata nella ortodossa basilica di San Sava. Certamente questo manifesta il forte legame tra stato e chiesa ortodossa, come è stato da più parti evidenziato, ma credo sia l’esito (magari inconsapevole) di una fetta di storia e di religione troppo celermente dimenticata. La preghiera in basilica per il Kosovo (ormai) musulmano riporta alla mente (soprattutto dei serbi) tutti i poemi epici tratti dalla battaglia della “Piana dei Merli” (Kosovo) dove gli ottomani sconfissero i cristiani nella del 16 giugno 1389. Se poi prestiamo fede alla tradizione, la sconfitta fu causata non da una inferiorità tattica dei cristiani o da avverse condizioni, ma da un “tradimento”.
Il cerchio pare chiudersi e la storia, come diceva qualcuno, ripetersi.
 
 
 
 
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