e finchè le istituzioni internazionali non arriveranno ad un simile potere (si pensi soltanto che gli ultimi due presidenti americani hanno di fatto nominato il presidente della Banca Mondiale con significativi cambiamenti di impostazione e di politiche da Wolfenson a Wolfowitz eletto dall’ex presidente Bush), tutti gli abitanti del pianeta, e non solo i cittadini statunitensi dovrebbero votare in questa elezione.
La storia giudicherà più serenamente ma molti ritengono che Bush sia stato probabilmente uno dei peggiori presidenti della storia americana. Non è corretto imputargli in toto la responsabilità della crisi finanziaria che nasce da problemi strutturali di lungo periodo più volte analizzati su Bene Comune da precedenti interventi. Ritornando però ad un momento decisivo della storia mondiale, quello della prima elezione di Bush e della competizione tra il medesimo e Al Gore, pochi potrebbero dubitare del fatto che, in caso di vittoria di Gore, non avremmo avuto la guerra in Iraq e la politica ostile agli accordi di Kyoto sul clima.
Realisticamente la contesa elettorale americana è scontro di lobbies. Se osserviamo la mappa dei sostenitori dei candidati repubblicani e democratici ci accorgiamo grosso modo che con i primi si schiera l’industria petrolifera e con i secondi quella delle energie rinnovabili e gran parte dei giganti di internet.
Se è pur vero che negli USA l’innovazione si realizza sul mercato, e che all’inerzia dell’amministrazione centrale si è contrapposta una primavera dei governi dei vari stati e delle grandi città, non possiamo ignorare che il ruolo del governo federale e dei suoi investimenti in ricerca rappresentano un volano fondamentale per l’innovazione stessa. Per tutte queste considerazioni ritengo che gli otto anni di Bush abbiano significativamente rallentato di diversi anni la svolta tecnologica sulle energie rinnovabili che rappresenta la vera grande rivoluzione che stiamo aspettando e che potrà rilanciare l’economia in modo simile a quanto accaduto negli anni ’90 con la new economy.
Pur non essendo giusto attribuire a McCain le colpe di Bush l’elezione di Obama dà sicuramente più garanzie e fiducia in termini di ritorno al multilateralismo, impegno nella sostenibilità ambientale e giustizia sociale.
Per motivi simbolici che vanno persino al di là del suo programma, l’elezione di Obama avrà sicuramente un ruolo fondamentale nel cambiare l’immagine degli Stati Uniti nel resto del mondo. Chi avrebbe mai potuto immaginare che in un paese dell’Africa Subsahariana (il Kenya) si sarebbe indetta una festa nazionale e ci sarebbero stati caroselli e festeggiamenti per l’elezione di un presidente degli Stati Uniti ?
C’è chi teme un’eccessiva morbidezza del nuovo presidente in politica estera potrebbe rendere più audaci i terroristi e i nemici dell’occidente ma è tutto da dimostrare che l’economia della paura e dello scontro diretto a tutto campo abbia ottenuto maggiori risultati di una politica estera di tipo diverso concentrata solo sulla lotta al terrorismo.
Al di là di tutti questi ragionamenti l’elezione di Obama è un’incredibile dimostrazione del valore della democrazia americana, capace di promuovere grandi cambiamenti interni in maniera assolutamente democratica. Per tutti noi che lavoriamo da anni per la partecipazione della società civile ai processi economici, per l’economia dal basso e per l’applicazione concreta dei principi di sussidiarietà nell’economia moderna è una grande iniezione di fiducia anche per le modalità con cui si è svolta (la scelta di fare fund raising dal basso, l’enorme capacità di coinvolgimento di una parte del paese che non partecipava di solito alle elezioni).
Viviamo un’epoca in cui le vere grandi rivoluzioni (internet e tutte le sue applicazioni, le novità in economia del microcredito e dell’economia responsabile) avvengono dal basso. Per la prima volta l’elezione di un governo così importante che promuove interventi dall’alto è figlia di questo stesso principio.
Mentre le generazioni dei nostri padri si sono sempre sentite profondamente americane per via della gratitudine nei confronti di quell’immenso popolo che ci liberò dall’occupazione nella seconda guerra mondiale e pose con il piano Marshall le premesse per la nostra prosperità futura, i giovani di oggi fanno molta più fatica a guardare con simpatia questo grande paese.
Ci sono tutte le ragioni per credere che quanto successo oggi cambierà radicalmente questo atteggiamento.