Occorrerebbero – sottolinea il Governatore – maggiori servizi e una organizzazione del lavoro coerenti con le esigenze della conciliazione tra vita e lavoro. Non sono affermazioni di poco conto, vale veramente la pena riprenderle e approfondirle brevemente.
La conciliazione tra famiglia e lavoro è assicurata nel nostro Paese dalla donna che sostiene così costi crescenti tanto sull’uno quanto sull’altro fronte. Un lavoro professionale che si fa più complesso, che diventa più esigente, pesante o stressante. Un lavoro di cura che vede progressivamente aumentare le attività da svolgere, i rapporti da tenere con altri soggetti che concorrono a fornire i servizi primari di cui l’unità familiare necessita. Ne consegue che la donna finisce con il rinunciare a dimensioni e tempi propri.
Costi crescenti dunque, che per la donna possono assumere manifestazioni molteplici. Quella di dover progressivamente rinunciare a un lavoro impegnativo, gratificante e valorizzante, con lo spostamento su posizioni residuali, marginali, sottopagate e discriminate, con un livello di protezioni ridotte. E’ il caso delle forme dequalificate di lavoro part-time, accettate in quanto rappresentano l’unica possibilità di impiego; è il caso del ritorno al lavoro dopo avervi rinunciato per la nascita dei figli, ritorno che – quando si verifica – significa sovente dover ripartire da zero se non addirittura da posizione ancora più svantaggiata.
Il “sovraccarico” delle donne brucia dunque opportunità per una vita famigliare ricca di significato, priva la società e l’economia di risorse e potenzialità essenziali per la sua crescita equilibrata. I fattori che determinano questo stato di cose sono molteplici. Ne richiamiamo alcuni.
Una prima situazione riguarda le impostazioni correnti sul mercato del lavoro e nelle imprese per cui il lavoro femminile, a condizioni standard, continua a essere ritenuto un lavoro costoso, rischioso, poco affidabile.
Una seconda situazione si collega a politiche sociali scarsamente attente alle esigenze delle famiglie specie con figli piccoli. Pochi interventi finanziari di sostegno; poche opportunità di armonizzazione tra responsabilità famigliari e partecipazione attiva al mercato del lavoro; pochi servizi reali per la prima infanzia congiuntamente a un’organizzazione che dà per scontata la presenza a casa di una madre a tempo pieno.
Una terza situazione concerne la sperequata divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne. (La doppia presenza vale soltanto per queste ultime. Ricerche recenti evidenziano che al lavoro di cura l’uomo dedica giornalmente meno di mezz’ora.).
Ci si rende ormai conto che questo stato di cose non può più reggere. Si impone pertanto – di qui le autorevoli sollecitazioni di Mario Draghi – la ricerca e la progettazione di nuove interdipendenze tra qualità della vita nella famiglia, nei luoghi di produzione e dell’economia, nel contesto sociale. Occorre riconsiderare il senso del lavoro nell’ambito di una relazionalità solidale tra uomo e donna e anche, aggiungerei, tra genitori e figli. Si richiedono mentalità e culture diverse in grado di dar vita a nuovi comportamenti, strutture, modalità organizzative. Non mancano i segnali, seppure confusi e contradditori, che ci dicono che è possibile procedere in tale direzione.
In una risoluzione del Consiglio dei Ministri del lavoro e degli affari sociali di qualche anno fa si legge:“la maternità, la paternità come pure i diritti dei figli piccoli sono valori sociali eminenti che devono essere salvaguardati dalla società, dagli stati membri, dalla Comunità europea. La fecondità e la scolarità sono essenziali per la salute dell’economia e dell’impresa. L’impresa non può svilupparsi in una società in crisi demografica”. In altri termini, lo sviluppo umano è alimentato non solo dalla crescita del reddito, dalla scolarizzazione, dalla salute, dalla distribuzione del potere, ma anche dalla cura. Il ruolo della cura nella formazione delle facoltà umane e nello sviluppo umano è fondamentale. Il lavoro di cura produce beni sociali, crea capitale umano e sociale (UNDP – Rapporto sullo sviluppo umano 1999).
Se tutto questo è vero, la conciliazione tra famiglia e lavoro non può essere gestita in un’ottica privatistica. Si impone, al contrario, un’assunzione di responsabilità collettiva. Ciò vale in modo particolare per il nostro Paese che su questa tematica si trova in posizione marginale rispetto a quanto accade in Europa. In posizione marginale essenzialmente per due motivi. Il nostro tasso di occupazione è mediamente 5-6 punti percentuali inferiore a quello di Francia e Germania; del pari ci collochiamo agli ultimi posti quanto a tasso di natalità.
Tutto ciò rappresenta un freno allo sviluppo. Per rimuoverlo occorre sia aumentare il livello di occupazione complessiva, possibile – in larga misura – attraverso la crescita dell’impiego femminile sia favorire la ripresa demografica. Con altre parole le donne dovrebbero lavorare di più e avere più figli. Questa l’impasse in cui si trova il nostro paese:
– i figli costano e il costo dei figli è aggravato dalla crisi e dai tagli della finanza locale nonché da politiche tributarie scarsamente sensibili ai bisogni delle famiglie;
– il lavoro di moltissime donne è oggi frammentato, poco retribuito, poco protetto, poco sicuro.
Tra i due elementi si è instaurata una circolarità viziosa che le attuali difficoltà economiche tendono ad enfatizzare. Come indurre le donne con lavoro precario ad avere figli? Come indurre le madri ad accettare un lavoro il cui beneficio può essere inferiore ai costi che dovrebbero sostenere per la crescita dei figli? E’ a questi interrogativi che la politica di welfare è chiamata a rispondere nel nostro Paese. Tematiche del genere possono – anzi devono -essere affrontate anche in un periodo di crisi come l’attuale. Specialmente se si è convinti che dalla crisi si uscirà solo attraverso un grosso rimescolamento di carte, capace di portare le persone a esaminare più a fondo valori e priorità nella prospettiva di un nuovo stile di vita.