A parte le considerazioni di assoluta imprevedibilità sull’evoluzione anche nel breve periodo, da alcuni fatte apertamente e da altri accolte implicitamente, mi sembra che vi sia in alcuni la preoccupazione che possano ritornare logiche stataliste di ritorno all’intervento pubblico che, peraltro, c’è già stato negli USA, in Europa e in tutti i Paesi in dimensioni mai viste nel passato (misure di salvataggio delle banche e fondi di garanzie vari), e di messa in discussione dei processi di immissione di “cultura del mercato” in Paesi, come l’Italia, nei quali essa è ancora debole.
Altra grande direttrice del dibattito è quella di chi critica o si dichiara deluso dal “modo in cui le regole del mercato sono state applicatenegli USA, sia nella crisi del 1929, politica monetaria troppo restrittiva, sia oggi, politica della FED (ovviamente ispirata e sostenuta dal Presidente Bush), considerata forse (poiché gli effetti si vedranno in futuro) troppo accondiscendente nei confronti degli speculatori tramite una enorme immissione di liquidità nel sistema. Politica, peraltro, seguita da altri Paesi e recentemente “concertata” a livello europeo, poi tra Europa e Usa e che il presidente Bush intende estendere a livello globale nel prossimo “vertice a 20” convocato a metà novembre.
Probabilmente mi sbaglio, ma a me sembra che coloro che si preoccupano di ricordare i meriti del sistema di mercato, meriti che sono stati, sono e saranno molti, e si sforzano di distinguere il “modello” dal “modo” in cui lo hanno applicato gli USA e la comunità finanziaria globale, assomiglino tanto a coloro che di fronte al fallimento delle “economie e dei sistemi comunisti” cercarono (e alcuni ancora oggi cercano) di distinguere il “modello sociale ed economico del socialismo” dal modo in cui esso era stato interpretato e distorto in molti Paesi: la nota distinzione tra “socialismo ideale”, (o astratto) in sé buono, e “socialismo reale”, dimostratosi cattivo e contrario alla dignità della persona umana.
La mia interpretazione della crisi attuale è un po’ diversa e può essere sintetizzata nelle seguenti due proposizioni:
a) i sistemi economici (e sociali) vanno in crisi quando essi “dimenticano” di essere costruiti per il progresso della persona nella sua unitarietà e non per rispondere alle esigenze di ruoli e funzioni “parziali” della persona;
b) il successo o le crisi dipendono dalle regole (come la maggior parte delle analisi sottolineano), ma dipendono soprattutto dai valori di riferimento di chi ha il potere di definire le regole o dai comportamenti di chi deve rispettare formalmente o sostanzialmente le stesse (che dipendono sempre dai valori).
Le economie del “socialismo reale” sono andate in crisi poiché esse avevano applicato le categorie concettuali dell’economia classica dei fattori di produzione, quella del “lavoro” e del “capitale”, in termini estremi, accentuandone gli elementi di contrapposizione, considerando le persone come “masse sostituibili di lavoratori” e il “capitale” come strumento tramite cui poche persone imponevano il loro potere sulle masse popolari. La persona come soggetto individuale e relazionale, unico ed irripetibile, dotato di una sua autonomia nella scelta tra il bene e il male (secondo criteri antropologici, sociologici, etici, morali, religiosi) non esisteva più e al suo posto era stata posta la “classe”, da un lato dei lavoratori e dall’altro deipadroni-capitalisti impegnati nella “lotta di classe” nella quale i primi avrebbero potuto vincere solo negando la “proprietà privata” e affermando la “proprietà pubblica” dei mezzi di produzione. Dopo decadi di illusioni e di molte tragedie umane (milioni di morti, spostamenti forzati di intere popolazioni) le persone si sono ribellate alla spersonalizzazione. Peraltro, passati dal modello economico della proprietà dei beni di produzione da parte dello “Stato”, al cosiddetto modello “di mercato” e/o “capitalistico”, non sempre sono cambiati i presupposti antropologici, sociologici, politici, etici e morali e in alcuni Paesi si è affermata la contraddizione del “mercato senza democrazia reale”, senza il rispetto della persona.
A loro volta i sistemi sociali costruiti sul modello del “Welfare State” che hanno caratterizzato le democrazie liberali europee, partendo dalla stessa concezione dell’economia classica del “lavoro come fattore di produzione”, dopo la prima fase della rivoluzione industriale, hanno ritenuto che, sulla base del principio di “difesa” della dignità della persona diffuso dal cristianesimo e dalla cultura laica liberaldemocratica, fosse necessario che la comunità, tramite l’intervento diretto dello Stato e delle istituzioni pubbliche, tutelasse da un lato i lavoratori e dall’altro le persone deboli rispetto al sistema e alle regole del mercato. Tali sistemi sono stati il cardine dello sviluppo economico e del progresso sociale per un lungo periodo, ma sono entrati in crisi quando:
a) la legislazione degli Stati e i comportamenti dei sindacati si sono posti l’obiettivo di difendere i posti di lavoro (anche quelli obsoleti) e non le persone che, tramite il lavoro, possono contribuire allo sviluppo della società;
b) la disponibilità in abbondanza di beni materiali e di servizi è coincisa con la riduzione della qualità delle relazioni sociali e della possibilità per le singole persone di decidere autonomamente, nel bene e nel male, della propria vita.
Anche il modello del “mercato”, specie di quello globale, si è fondato sulla netta distinzione del ruolo e delle funzioni delle persone come “fattore produttivo” (lavoratore), come consumatore, che deve sempre più essere messo al centro “dell’attenzione”, che è il re o la regina fino a quando può pagare, come “risparmiatore” che deve essere difeso dagli imbrogli di altri o anche dai propri errori (cosa di per sé lodevole) insieme agli speculatori (cosa meno lodevole). Anzi, per consentire consumi low cost sono state adottate nel recente passato strategie di “delocalizzazione” in Paesi nei quali il costo del lavoro è più basso perché non sono adottate garanzie per le persone che producono, ma nei quali l’ abbondanza di “braccia” o anche di “cervelli” favorisce una concorrenza con limitato innalzamento del tenore di vita.
Il boom dei prezzi del petrolio, delle materie prime e dei generi alimentari di alcuni mesi fa ha arricchito pochi e ha reso un po’ meno “low” tutte le attività “low cost” (dai voli aerei, al riscaldamento, alla spesa delle famiglie). L’accentuarsi della crisi finanziaria dei mesi successivi ha ridotto la ricchezza dei risparmiatori veri molto più velocemente e in misura molto più elevata di molte tassazioni “contestate” nel passato (qualcuno ricorderà il prelievo sui depositi in conto corrente di alcuni anni fa, ben inferiori alle perdite con percentuali da capogiro o da infarto del valore delle azioni negli ultimi mesi).
Quale conclusione si può trarre? Se chi detiene il potere o la società nel suo complesso non sarà capace di fare politiche idonee a considerare in modo integrato e complessivo gli effetti sulla vita delle persone, delle famiglie, delle comunità locali, nazionali e internazionali, ma si continueranno a fare politiche “del lavoro”, per il “consumatore”, per il “risparmiatore”, per gli imprenditori, per i ricercatori, ecc., potremo avere ancora sviluppo economico (tutti ce lo auguriamo), accompagnato però da crisi sempre più frequenti e ravvicinate e da una qualità di vita umana di cui la maggior parte della popolazione mondiale si sentirà insoddisfatta.