Mi sembra più difficile la penetrazione del tema della qualità della vita nelle formazioni politiche tradizionali, processo che avrebbe il vantaggio di accorciare i tempi. Il motivo è culturale. Per quanto riguarda la destra, questi temi non sono nelle sue corde. Infatti, promuovere la qualità della vita significa colpire largamente grandi interessi economici che fanno profitti a suo discapito. E la protezione dei grandi interessi economici fa certamente parte del patrimonio culturale fondamentale della destra.
La sinistra potrebbe essere più sensibile a questi temi ma forse lo è solo in apparenza. Infatti, la sinistra è nata per occuparsi della difesa dei più deboli e lo fa, com’è noto, con varie colorazioni, (che vanno dal rosso acceso al rosina pallido) ma il suo imprinting rimane quello della protezione degli svantaggiati. I temi della qualità della vita invece riguardano tutti e non solo i più deboli. È per questo che non sono un pilastro del discorso tradizionale della sinistra. Naturalmente ci sono state delle eccezioni, tra le quali quella che spicca maggiormente è Enrico Berlinguer. Anche tra i socialisti ci sono stati personaggi di spicco sensibili a questo tema, tipo Lombardi o Ruffolo. Anche nella cultura cattolica c’è stata attenzione al tema, soprattutto per quanto riguarda i timori di un deterioramento della qualità della vita comunitaria, uniti a un certo sospetto per la cultura consumistica. Ma si tratta appunto di eccezioni.
Il problema attuale della sinistra è che è chiusa in un recinto. Infatti il messaggio della protezione dei più deboli ha perso via via di fascino, in una situazione in cui strati sempre più ampi della popolazione si andavano convincendo di avere qualche privilegio – più o meno piccolo – da difendere. Ultimamente c’è una ripresa di appeal di tale messaggio a causa della crisi economica che ha ridotto le schiere di coloro che pensano di godere di privilegi. Insomma il recinto della sinistra si è allargato, ma rimane sempre un recinto. Parlare di temi che riguardano tutti consentirebbe di uscire dal questo recinto. Non si tratta di sostituire i temi tradizionali ma di affiancarli con decisione con temi che riguardano tutti o quasi. Questo può catturare il consenso di milioni di mamme preoccupate perché i loro figli sono schiacciati dai compiti a casa o di milioni persone preoccupate per i loro quartieri sempre più invivibili, lo stress da lavoro, la gente sempre più incarognita, il cibo sempre più avvelenato, i tumori che hanno assunto un andamento epidemico.
Mi soffermo sugli ultimi due esempi. La vulgata tradizionale ci racconta che nei paesi occidentali il problema alimentare è stato risolto. Questo è naturalmente del tutto falso e la gente lo sa benissimo. È stato risolto il problema della quantità del cibo ma quello della qualità è peggiorato. Se la sinistra promuovesse programmi e leggi per approvvigionare le città di cibo migliore farebbe penetrare nel dibattito politico un tema che è del tutto assente ma è fortemente sentito dalla gente.
Veniamo al cancro. In questo caso la vulgata tradizionale, personificata da piazzisti tipo Veronesi, ci assicura che stiamo vincendo la battaglia contro il cancro e che quindi vale la pena di destinare risorse alla ricerca sulle sue terapie. In realtà questa battaglia la stiamo perdendo. A fronte di progressi limitati nei trattamenti si registra un dilagare dei tumori simile ad una epidemia. Ormai un italiano su tre contrarrà il cancro nel corso della sua vita. C’è una evidenza schiacciante che il cancro sia largamente una malattia ambientale, il corrispondente contemporaneo delle infezioni che hanno funestato il genere umano per millenni e che sono finite solo col drastico miglioramento delle condizioni igieniche, prima ancora che con l’invenzione degli antibiotici. Una buona parte delle schifezze che mangiamo e che respiriamo sono cancerogene. Alcune le conosciamo bene. Ad esempio sappiamo che diversi pesticidi largamente diffusi sono cancerogeni. C’è uno spazio di consenso potenziale immenso su progetti per ridurre l’uso dei pesticidi in agricoltura, perché a tale scopo non è mai stato fatto niente.
Sono spazi che potrebbero essere sfruttati dalla sinistra molto più che dalla destra perchè per mangiare meglio bisogna colpire interessi di immense multinazionali. Non esattamente la mission della destra. In certi casi addirittura lo stesso colosso della chimica produce sia pesticidi che i chemioterapici.
Tra le parole d’ordine la sinistra dovrebbe includere: qualità urbana, qualità delle relazioni umane, qualità del lavoro, qualità dei media, qualità dell’ambiente, qualità del cibo, e anche qualità della democrazia. Si tratta di proporre di uscire dalla crisi con un cambiamento della nostra organizzazione sociale chiarendo che quella attuale, esclusivamente votata al consumo e al lavoro, produce un deserto culturale, sociale, relazionale, umano e ambientale. Una società votata esclusivamente al lavoro e al consumo crea problemi a quasi tutti. Non ci sono vincenti e perdenti in questo tipo di società. C’è solo chi perde di più e chi perde di meno. Faccio notare l’enorme presa che lo spostamento del dibattito politico su questi temi potrebbe avere sull’elettorato femminile. In un certo senso quello che propongo è un tentativo di declinare al femminile l’organizzazione sociale.
Conosco l’obiezione. Difficile cavalcare questi temi in un momento di recessione e disoccupazione dilagante perché il consumismo crea posti di lavoro. Qualunque scelta sociale che conduca a un contenimento del consumo produce infatti un aumento della disoccupazione. Questa obiezione è basata sulla visione tradizionale del consumismo come un fattore positivo dal punto di vista dell’occupazione: più consumo vuol dire più vendite da parte delle imprese e quindi più posti di lavoro.
Questo argomento può essere ribaltato: il consumismo può produrre più disoccupati della società relazionale. Mi spiego. I disoccupati sono coloro che cercano un lavoro e non lo trovano. Il loro numero dipende quindi da altri due numeri: quello delle persone che cercano un lavoro e quello dei posti di lavoro esistenti. La disoccupazione può diminuire se aumenta il numero dei posti di lavoro e/o se diminuisce il numero di persone che cercano un lavoro.
Il problema è: quanto pesa la necessità di raggiungere un certo standard dei consumi nelle decisioni che le famiglie prendono su quanto lavoro cercare e accettare? La risposta è molto. Le decisioni delle famiglie che riguardano quanti membri della famiglia vogliono un lavoro e se lo vogliono a tempo pieno o parziale sono condizionate dalle loro necessità di spesa. L’altra faccia della medaglia di un mondo di gente che vuole consumare molto è un mondo di gente che deve lavorare molto.
Per questo la scelta di privilegiare il consumo come mezzo per alleviare la disoccupazione non funziona. Questa scelta punta tutto sull’aumento dei posti di lavoro trascurando il fatto che il consumismo ha anche un effetto negativo sulla disoccupazione: aumenta il numero di persone che cercano un lavoro e il numero di ore che esse sono disposte a lavorare. Il motivo è che il consumismo crea bisogno di denaro. Mentre aumentano i posti di lavoro aumenta anche il bisogno della gente di lavorare.
Bisogna invece fermare il circolo vizioso dello spendi-di-più – lavora-di-più. Puntare sulla qualità della vita è il modo di fermarlo. Come ho argomentato nel mio libro (Manifesto per la Felicità, Come Passare dalla Società del Ben-Avere a quella del Ben-Essere) un aumento della qualità della vita consente da un lato di invertire quel degrado per difenderci dal quale siamo costretti a spendere e da un altro produrre una cultura che ci consenta di superare l’illusione che comprare sia la soluzione a gran parte dei nostri problemi.
I temi della qualità della vita sono una grande occasione anche per parlare di diseguaglianza, il tema per eccellenza della sinistra. Non solo diseguaglianza economica ma di qualità della vita. Dovremmo promuovere l’eguaglianza della qualità della vita, oltre a cercare di elevarla per tutti. È un compito che dovrebbe essere affiancato alla riduzione della diseguaglianza economica ma è più facile da perseguire perché la qualità della vita ha largamente la natura di bene comune e quindi è più facile promuoverla per tutti.
La mia impressione però è che le difficoltà di penetrazione di questi temi nelle agende politiche della sinistra europea siano enormi. La resistenza culturale a trattare temi che riguardano tutti è fortissima. Infatti, in un certo senso questo si scontra con una idea che fa parte del patrimonio culturale fondamentale della sinistra, quello che la politica sia il luogo del conflitto (e della mediazione) tra interessi diversi. Ma per la qualità della vita il conflitto è al massimo tra gli interessi di una minoranza piccolissima (e potentissima) e quelli della stragrande maggioranza delle persone. Dunque, è probabile che almeno per un bel po’ la sinistra continuerà ad avere proposte deboli, difensive e “recintate”. Verosimilmente continuerà a perdere questa gigantesca occasione di imporre temi al dibattito pubblico e alle agende politiche. Continuerà a lasciare questo compito alla destra ed essa continuerà ad imporre le proprie ricette in Europa.
Un fantasma si aggira per l’Europa: la qualità della vita
di Stefano Bartolini
rnGli abitanti dei paesi europei hanno problemi – più o meno grandi – nella qualità della loro vita. Per questo una maggioranza relativa di cittadini europei potrebbe convergere su progetti finalizzata a promuoverla, praticamente in tutti i paesi. Ma la qualità della vita continua ad essere il grande assente dalla comunicazione politica dei partiti europei. Probabilmente emergeranno nuovi partiti politici su questi temi, verosimilmente come risultato della nascita di movimenti. Ci vorrà un bel po’ di tempo.
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