Quando si parla di povertà, bisogna anzitutto far chiarezza su alcuni concetti. Primo: la povertà è un concetto relativo. La povertà in Italia e quella nei Paesi in via di sviluppo differiscono molto l’una dall’altra. Nei paesi in via di sviluppo la soglia è 1 dollaro, e sotto di essa è possibile contare più di un miliardo di persone. In Italia la povertà relativa (perché misurata in rapporto al reddito medio), secondo i dati ISTAT, ha una soglia di circa 600 euro.
Nonostante le chiare differenze queste due realtà possono essere messe a confronto. Un’economia povera si difende dalla povertà grazie all’auto-consumo e all’auto-produzione o mettendo in atto scambi informali come il baratto. Nella nostra società tutto questo non c’è più, se non in rari casi come, ad esempio, il passaggio dei vestiti tra bambini e altre pratiche che fungono da sacche di difesa contro la povertà. Noi in generale dipendiamo dal mercato: tutto quello che serve al nostro fabbisogno quotidiano lo dobbiamo comprare.
rnNel 2007, le famiglie italiane in condizioni di povertà relativa erano 2 milioni 653 mila (11,1% delle famiglie residenti); nel complesso gli individui poveri erano 7 milioni 542 mila, il 12,8% dell’intera popolazione. Se dal dato aggregato scendiamo a livello territoriale, vediamo che nel mezzogiorno l’incidenza della povertà è molto più alta rispetto al Nord (22,5% contro il 5,5%).
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In Italia permangono delle contraddizioni di fondo: si calcola l’inflazione, ma non la differenza tra i livelli dei prezzi. Mentre tra Paesi la povertà si misura a parità di potere d’acquisto (cioè se ho 100 euro di stipendio in Italia e ne ho 100 a Cuba, se a Cuba la vita costa 10 volte meno, quel 100 in realtà varrà mille), in Italia le differenze di costo della vita, spesso anche enormi, non sono prese in considerazione.
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Un altro assurdo logico, inoltre, è l’assenza di uno strumento di equità sociale come il quoziente familiare. Nel nostro Paese tra le categorie più svantaggiate ci sono le famiglie numerose che, giocoforza, devono sostenere dei costi più elevati: se il reddito familiare non è diviso per un quoziente che fa riferimento al numero dei componenti (che nell’OCSE generalmente corrisponde 0,5 per il coniuge e 0, 3 per tutti i figli), chi fa più figli si diventa sempre più povero.
Un altra categoria in forte difficoltà è costituita dalle persone che hanno perso o stanno perdendo il lavoro: il rischio di esclusione sociale cresce e questo stride fortemente con la realtà di coloro che il lavoro ce l’ hanno ancora e che, per effetto del calo dell’inflazione, vedranno addirittura una rivalutazione dei salari.
Per questo è necessario che le misure di welfare non premino solo il “non lavoro”. In un paese come l’Italia si rischierebbe infatti di incrementare il lavoro nero, riducendo l’incentivo della persona a ritrovare occupazione. Bisognerebbe piuttosto premiare la creazione di nuova occupazione: una parte di sussidi attivi potrebbe essere destinata a sostenere cooperative e piccole imprese per ridurre il costo del lavoro che in Italia mantiene livelli molto alti.
A livello globale, le iniziative di sostegno alla crisi prevedono molte risorse per il rilancio di settori dell’economia obsoleti senza incentivare abbastanza almeno la creazione di modelli meno inquinanti La distribuzione di denaro pubblico dovrebbe rispondere ad una prospettiva a lungo termine: bisogna tener conto del fatto che stiamo vivendo in una fase di conversione ad un’economia sostenibile e quindi è quanto mai necessario creare valore economico in maniera socialmente e ambientalmente sostenibile.
Tra i rimedi alla crisi, accanto a strumenti finanziari e di tutela sociale, l’istruzione rappresenta un fattore di indiscutibile importanza. L’ Italia è il Paese dove i rendimenti della scolarizzazione sono più bassi In pressoché tutti gli altri Paesi del mondo ogni anno in più di istruzione incide sul reddito medio più che in Italia al netto di tutti gli altri fattori considerati.
Ma la povertà non è declinabile solo in termini materiali. Siamo sempre più poveri dal punto di vista relazionale e siamo sempre meno felici. Esistono una serie di alternative non relazionali all’uso del tempo che generano il crollo di tutti gli indicatori di vita sociale: partecipazione alla vita associativa, a quella religiosa, politica, la tenuta delle famiglie, e questo ci rende ancor più vulnerabili.
La crisi di beni relazionali è una delle cause del paradosso della felicità: secondo uno studio condotto in Germania su un campione di 60.000 intervistati, un terzo di coloro che hanno registrato un aumento annuale di reddito reale familiare hanno riportato contemporaneamente una diminuzione di felicità. I cosiddetti frustrated achievers sono persone cadute nella trappola della sottoproduzione relazionale che mina quelle risorse immateriali che fungono da pilastro del sistema socio-economico: dignità, autostima, fiducia, capitale sociale.
Contro il riduzionismo antropologico dell’homo oeconomicus, dell’uomo senza committment e senza sympaty, è utile ricordare le parole di Adam Smith secondo cui la felicità delle persone dipende dalla capacità di rendere felici gli altri. Per questo la soluzione alla crisi attuale potrebbe nascere dall’incontro tra due povertà: la povertà materiale delle aree di disagio (non solo fuori ma anche dentro L’Italia) e la povertà di senso dei paesi ricchi. L’unione di queste due realtà potrebbe aiutarci a costruire una nuova economia, che dia spazio alle relazioni e nuova dignità al mercato.
Le stesse vicende di questi giorni con l’enorme risposta di solidarietà e di disponibilità a donare tempo e denaro degli Italiani per la tragedia dell’Abruzzo testimoniano che si tratta della direzione più giusta e vitale.
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