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Con l’approvazione al Senato del ddl sul federalismo fiscale, approvazione tra l’altro genuinamente bipartisan, si riapre un processo di riforma sostanziale dell’organizzazione istituzionale ed amministrativa del nostro paese.

Innanzitutto, è bene rispolverare quali sono i principi fondamentali di una riforma di questo genere.
Puntare sul federalismo significa:

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  1. “tollerare” le differenze e, anzi, riconoscere che proprio la differenziazione, accompagnata dallo spirito di emulazione, possa meglio stimolare risposte più efficaci ai bisogni collettivi rispetto all’uniformazione e alla standardizzazione centralizzata;
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  3. responsabilizzare i decisori locali non sul rispetto di direttive e di soluzioni definite a livello centrale, ma sull’effettivo raggiungimento di risultati concreti in termini di qualità della vita per i cittadini, all’interno di un quadro di regole chiare, semplici e stabili;
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  5. lasciare la necessaria autonomia decisionale ai decisori locali affinché la loro responsabilizzazione sui risultati sia piena e senza alibi, lasciando che emergano chiaramente meriti (da premiare) e incapacità (da sanzionare).
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Questi sintetici principi devono essere pienamente condivisi ed ispirare l’azione quotidiana di politici e funzionari pubblici. Altrimenti il federalismo rimane solo uno slogan.
Il dubbio è che nella pratica quotidiana nella gestione dei rapporti con le istituzioni regionali e locali questa condivisione di principi sia ancora piuttosto lontana.
Alcuni segnali, nemmeno troppo deboli, sostengono questo dubbio:
 
1) Gran parte del dibattito sul federalismo si è concentrato e si concentra sui sistemi di perequazione e sono in molti a credere che l’obiettivo primario di tali sistemi sia quello di assicurare uguaglianza di trattamento, in termini di risorse pubbliche e di servizi, a tutti i cittadini. Questa uguaglianza di trattamento stride con la natura stessa del federalismo, che fonda la sua funzionalità proprio sulla possibilità che emergano differenze. Più coerentemente il dibattito dovrebbe rivolgersi, invece, alla ricerca delle modalità migliori per assicurare pari opportunità, cioè basi di partenza simili al fine di assicurare a tutti la possibilità di trovare la propria via al successo, in termini di sviluppo economico, condizioni di vita per i propri cittadini, capacità di generare “valore pubblico”. Le differenze al “punto di arrivo” sono invece connaturate alla natura stessa del federalismo e non possono essere azzerate.
 
2) Attualmente, una buona fetta dei rapporti tra Stato ed autonomie territoriali passa attraverso le disposizioni delle manovre di finanza pubblica. Proprio queste disposizioni sono sintomatiche della mentalità ancora marcatamente centralista del governo nazionale. Esse, infatti, quasi mai si limitano a definire i confini dell’autonomia decisionale locale; piuttosto impongono modalità d’azione dettagliate e preconfezionate, pensate perché a livello locale ci si limiti alla pedissequa applicazione. E’ così fuori luogo pensare che si possa definire una volta per tutte l’ammontare delle risorse attribuite agli enti locali e lasciare che siano questi ultimi a trovare il modo migliore per impiegarle a beneficio della comunità? Ogni anno, invece, assistiamo a manovre finanziarie che:
a.      in buona parte rimettono in discussione tutte le regole previste l’anno precedente, impedendo qualsiasi possibilità di sana programmazione;
b.      inseriscono un’infinità di vincoli puntuali, paletti, divieti e condizioni che di fatto legano le mani ai decisori locali e ne giustificano la deresponsabilizzazione rispetto ai risultati;
c.      promuovono un’estenuante rincorsa alla regolazione delle eccezioni, di fronte al continuo emergere di situazioni di palese ingiustizia dovute al fatto che regole così puntuali non possono adattarsi alle infinite specificità locali;
d.      sono talmente complesse da generare due effetti negativi: offrono la miglior alibi dietro cui celare le mancanze dei decisori locali e consentono ai più scaltri di nascondere nelle pieghe delle regole azioni sostanzialmente scorrette.
L’evoluzione del patto di stabilità interna è una chiara dimostrazione di come si sia ancora molto lontani dal rispetto dei principi di autonomia e di sussidiarietà: al di là delle cifre in gioco la complessità, l’instabilità e i continui “rattoppi” resi necessari limitano fortemente la libertà decisionale degli enti locali.
 
3) I recenti casi di Catania e di Roma, a cui sono state concesse “esenzioni ad hoc” al rispetto del patto di stabilità, con contributi straordinari da parte dello Stato, rappresentano un chiaro esempio di come, allo stato attuale, non vi sia nessuna reale possibilità di responsabilizzazione delle autorità locali. In caso di necessità, le norme esistenti vengono semplicemente scavalcate da provvedimenti personalizzati. E in questo modo si perde anche l’ultimo barlume di credibilità del sistema, dimostrandone la completa inadeguatezza a regolare in maniera seria e convincente i rapporti tra stato e autonomie territoriali.
 
Per sostenere davvero un percorso di riforma federale, dunque, non bastano le votazioni nelle aule parlamentari. Occorre che si inizi ad adottare davvero una nuova prospettiva rispettosa dell’autonomia delle autorità locali e dei “principi fondamentali” del federalismo. E questo lo si può fare già da subito, se lo si vuole, senza aspettare necessariamente le tempistiche della produzione normativa.
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