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Le crisi finanziarie internazionali e la finanziaria di Tremonti fanno tornare prepotentemente di attualità il dibattito del rapporto tra politica, regole e mercato. Prima di ogni tentativo di classificazione (mercatismo, liberismo, destra, sinistra) che rischia gettare fumo negli occhi e di dare al dibattito un sapore ideologico dobbiamo entrare nella sostanza dei problemi.
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Non esiste, né è mai esistito un mercato senza regole ma esistono le “regole impazzite” dei mercati di oggi.

Utilizzando la metafora della circolazione stradale per i mercati finanziari è come se le regole odierne consentissero a giovanotti di circolare con le Ferrari nei centri abitati senza rispettare regole di velocità, né fermarsi ai semafori mentre le ambulanze che trasportano feriti agli ospedali fossero costrette a fermarsi a tutti gli stop e ai rossi. Gli investimenti nel sociale o i prestiti nei paesi in via di sviluppo sono considerati a massimo rischio e soggetti a stringenti vincoli di capitalizzazione (per ogni prestito effettuato è necessario avere consistenti riserve o capitale sociale) mentre gli intermediari possono, fuori bilancio, fare scommesse su complessi prodotti derivati senza alcun vincolo di capitalizzazione o con margini risibili rispetto alle somme messe in gioco.

Le stock options, che dovevano allineare gli interessi dei manager a quelli degli azionisti sono state un terribile incentivo alla manipolazione del valore di borsa dei titoli. L’importante era far salire il prezzo del titolo nella finestra temporale nella quale il manager aveva la possibilità di esercitare l’opzione senza preoccuparsi di quello che sarebbe successo dopo.

Il sistema complessivo di incentivi dei manager, palesemente asimmetrico, consente loro di partecipare ai guadagni di una scommessa assicurando responsabilità limitata in caso di perdite e buonuscita miliardaria. Tutto questo spinge ad un’assunzione di rischio assolutamente superiore a quella che desidererebbero azionisti e clienti delle banche.

Il tira e molla tra mercati finanziari e banche centrali sembra non riuscire ad uscire dal ciclo prodotto dagli eccessi di liquidità ormai strutturalmente presenti a livello mondiale. Ingenti somme di denaro investite in un mercato specifico vanno a creare “inflazione finanziaria”. La bolla ad un certo punto si sgonfia rovinosamente e la politica monetaria espansiva della FED che interviene per fronteggiare la crisi alimenta un nuovo eccesso di liquidità che va creare le premesse della nuova bolla in un altro settore. La prima bolla è stata quella del Nasdaq e dei titoli high-tech culminata nella crisi del marzo 2000. La seconda quella dei mercati immobiliari scoppiata di recente in seguito allo scandalo dei mutui subprime. La terza in pieno corso è quella dei boom dei prezzi delle materie prime (petrolio e prodotti agricoli). Il problema in questo caso è che si scherza col fuoco in quanto per la prima volta sono coinvolti beni non voluttuari ma di prima necessità.

Un avviso ai più sensibili. Il “luddismo finanziario” e le crociate contro gli strumenti in sé (i derivati) non sono la strada giusta. Gli strumenti hanno sempre una loro potenzialità intrinseca positiva (i derivati nascono per consentire agli imprenditori di assicurarsi contro il rischio e consentono agli agenti di scambiare rischio nello spazio e nel tempo). Con crociate come queste ci si mette dalla parte del torto e si diventa facile bersaglio delle critiche degli addetti ai lavori.

 Il problema sono le regole impazzite e il vero scandalo è la sproporzione tra somme investite e valore sociale e di qualità della vita delle iniziative intraprese. Viviamo in un’epoca nella quale il patrimonio dei 348 uomini più ricchi del mondo è uguale a quello di più di due miliardi degli individui più poveri. In una fase storica in cui la fine della povertà sarebbe a portata di mano ma si utilizzano migliaia di miliardi in transazioni finanziarie al fine di aumentare la rappresentatività dei prezzi quando basta un credito di 100 euro per consentire ad una famiglia di uscire dalla marginalità e di intraprendere un percorso di autosviluppo.

In periodi di boom di borsa le disuguaglianze passano sotto silenzio (se tutti guadagnano gli extraprofitti del manovratore sono tollerati) ma in periodi di crisi diventano inaccettabili per l’opinione pubblica. L’alibi del fatto che con questa distribuzione di reddito sperequata si crea più ricchezza economica non regge più. Lo “sgocciolamento a valle” delle risorse finanziarie (trickle down) promesso da sempre dai più ottimisti deve essersi inceppato in qualche punto. Con il microcredito ed investendo nell’istruzione delle fasce deboli possiamo invece accrescere enormemente il potenziale di sviluppo di un paese mentre la distruzione di valore economico ad opera di alcune avventure di grandi gruppi è sotto gli occhi di tutti.

Possiamo lasciare il compito di questa redistribuzione alle “regole impazzite” (altro che spontaneità) e al buon cuore dei grandi manager (che pure sono in grado di fare cose egregie quando vogliono) o la politica ha il diritto/dovere di intervenire ?

Quale livello di democrazia e partecipazione popolare esprime la politica e quale i mercati ? La democrazia del mercato (con le regole attuali) è quella del primato dell’azionista (magari fosse almeno quello del piccolo azionista) su tutti gli altri portatori d’interesse (a partire dai consumatori). La democrazia della politica è garantita almeno dal fatto che il politico riceve un mandato dagli elettori e se non fa l’interesse almeno della maggioranza di essi farà molta fatica ad essere rieletto.

Il mercato è un motore a molti cavalli dalle grandi potenzialità, ma il pilota automatico è un astrazione che non ha nessuna corrispondenza con la realtà. Ci vogliono nuove regole e solo una politica (non demagogica ma competente) sottoposta alla pressione della società civile e dei cittadini responsabili, in forza della sua sensibilità e del suo mandato nei confronti degli elettori, ha la forza di promuoverle.

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