I costi sono rappresentati dalla differenza tra fornire un prodotto reale e finanziario nel quale si fa particolare attenzione agli aspetti di responsabilità sociale ed ambientale o si promuovono direttamente entrambe (e no non lo si dichiara solamente) e un prodotto tradizionale in cui questo non avviene.
L’etica è anche un prodotto per il quale i cittadini consumatori e risparmiatori sono disposti pagare. Poiché l’etica non si vende sfusa, ma sempre abbinata ad un prodotto tradizionale (un po’ come gli inserti dei quotidiani), il suo prezzo è dato dalla differenza di costo per il consumatore tra il “giornale senza inserto” e il “giornale con inserto”. L’etica, differentemente dalle mele e dalle arance, non si assaggia. E dunque una babele di marchi, certificazioni e controlli devono garantire ai consumatori sospettosi che ciò che si dichiara di fare viene effettivamente fatto.
Nonostante questa difficoltà aggiuntiva, i dati che provengono da varie indagini a mezzo intervista in diversi paesi del mondo e le evidenze dirette delle abitudini di acquisto indicano ormai alcune regolarità piuttosto chiare: esiste grosso modo un 20-30 percento di consumatori disposto a pagare fino al 10 percento in più rispetto al prezzo del prodotto tradizionale se lo stesso ha anche un contenuto sociale ed ambientale. Quando poi il “giornale con inserto” viene venduto allo stesso prezzo del “giornale senza inserto” la preferenza per il secondo sfiora l’80 percento dei consumatori.
L’affare è stato fiutato ormai da tutti e vogliamo fare solo pochi esempi. L’Air France offre ai propri passeggeri vassoi di cibo con cioccolata equosolidale. Sainsbury, una delle maggiori catene di supermercati inglesi, si affretta a ribattezzare 100 percento equo solidali le sue filiere per le banane. La Cathay Pacific offre al cliente la doppia possibilità di acquisto del “giornale con inserto” e senza inserto. Per il cittadino responsabile infatti c’è la possibilità di comprare un biglietto a prezzo maggiorato dove la differenza va a coprire i costi della politica ad impatto zero della compagnia aerea con la quale la stessa si impegna in iniziative di riforestazione per compensare le emissioni di CO2 generate dai propri voli.
Tutto questo ci dice qualcosa sull’impresa e sull’uomo che le aberrazioni di una certa cultura riduzionista avevano finito per offuscare.
Primo, non si fa impresa soltanto per massimizzare i profitti (o addirittura, come sostengono alcuni, non sopravvivono sul mercato soltanto le imprese che massimizzano i profitti). Esistono moltissime “intraprese” economiche che hanno primariamente obiettivi di carattere sociale e sono quelle che rendono probabilmente più felici i loro protagonisti e capaci di trasmettere la loro pienezza di vita anche nelle relazioni che vivono. Se si va sul sito del premio nobel Yunus si scopre che l’obiettivo della sua Grameen Bank non è mai stato quello di massimizzare i profitti quanto piuttosto quello di promuovere l’inclusione e la dignità degli ultimi e dei soggetti non bancabili. E nonostante questo “gravissimo difetto” la Grameen è diventata una banca con milioni di clienti e centinaia di migliaia di dipendenti e ha prodotto migliaia di imitazioni se le istituzioni di microfinanza nel mondo sono oggi più di tremila.
Alcuni giorni fa il Financial Times ha dovuto riconoscere che “le banche italiane sono solide” e stanno passando la crisi dei mutui suprime senza particolari scossoni. E’ una bella soddisfazione dopo anni di lezioni nelle quali si faceva rilevare l’incapacità dei nostri istituti bancari di essere alla frontiera nelle tecniche di gestione finanziaria. Per fortuna che non lo eravamo, perché gli anticorpi della nostra cultura cristiana, personalista e solidale, alimentati dalla ricchezza della società civile e dei corpi intermedi, hanno evitato che gli istituti bancari si trasformassero in grandi casinò come è spesso avvenuto oltre oceano e non solo.
Seconda semplificazione riduzionista. Le persone al mercato non cercano solo e a tutti i costi ciò che costa meno, infischiandosene delle conseguenze non economiche delle azioni economiche. Una parte importante di cittadini sa che trasformare un atto di acquisto o di risparmio in un gesto di inclusione di promozione della dignità altrui dà a quel gesto un gusto ed una gioia particolare. Nel dopoguerra il traguardo degli italiani era quella di comprare la prima automobile e tutti quei beni che assicuravano la conquista di uno status sociale di prestigio ad individui dalla guerra e dalla grande povertà. Oggi la nuova frontiera è abbinare l’acquisto di un prodotto ad un atto concreto di solidarietà ma anche di “autointeresse lungimirante”. Scegliere di essere socialmente ed ambientalmente responsabili vuol dire capire che la mancata soluzione di problemi in queste due sfere ha ricadute immediate sul nostro benessere (evita la concorrenza a basso costo dei poverissimi, le conseguenze sulla salute del deterioramento ambientale, ecc.). E’ ormai il caso di smetterla di parlare di generazioni future perché i problemi dell’ambiente riguardano pesantemente quelle presenti…
Tutto questo ci fa capire quali sono le insidie ma anche le grandi potenzialità per i pionieri del sociale e per coloro che da sempre orientano la loro attività economica al servizio della persona (Banca Etica, la microfinanza, il commercio equo solidale, il mondo cooperativo, le imprese profit all’avanguardia nella responsabilità sociale d’impresa, le ACLI, ecc.).
In questa babele di offerte e di iniziative i pionieri del sociale devono far risaltare la loro differenza in maniera molto chiara, sia nella governance che nella qualità etica delle loro attività economiche, ovvero nella capacità di promuovere valore sociale ed ambientale ed un’economia al servizio della persona. Sapendo anche innovare ed arrivare un attimo prima degli altri. Con una serena consapevolezza che però bisogna saper trasmettere al proprio pubblico: nessuno può copiarci veramente se non modifica la propria scala di priorità mettendo al centro la persona e più indietro il benessere di una sola tra le tante categorie di portatori d’interesse che è quella dei (grandi) azionisti. E con l’entusiasmo di constatare che l’economia solidale, il voto con il portafoglio non sono affatto marginali e possono veramente trasformare dall’interno il sistema economico perché, se vogliamo curare tanti mali che affliggono la società, dobbiamo iniziare dalla “piazza” e dal “mercato”, i luoghi dove si formano oggi le abitudini e la cultura dei cittadini.
I confini della nostra azione sono ben chiari. Una grande speranza, un grande sogno può fallire per due motivi. Ammalandosi di utopie irrealizzabili e fallendo all’impatto di sostenibilità perché le proposte di azione si rivelano insostenibili rispetto ai vincoli del reale (nel nostro caso la sicurezza della banca, la sua sopravvivenza finanziaria). Perdendo slancio ed uniformandosi al reale (“se qualcosa non esiste vuol dire che non è possibile farla”) negando la speranza che era all’origine del suo cammino e il principio di innovazione etica con l’evolversi nel tempo.
E’ interessante notare che ciò che la maggioranza degli opinion makers dice quando parla di sostenibilità ambientale e del problema dell’irresponsabilità sociale di un certo modo di fare finanza noi lo dicevamo dieci anni fa.
Un consiglio agli esperti più stimati ed autorevoli: se volete portarvi avanti con il lavoro osservate quello che stiamo facendo e dicendo oggi…