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Sviluppo e lavoro richiedono di essere assunti in termini contestuali. Il lavoro non viene “dopo” lo sviluppo, come portato o conseguenza dello stesso. Al contrario, ne costituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività che proprio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di piena esplicazione.

Il gap tra dinamiche produttive ed esigenze quantitative e qualitative del lavoro richiede di essere ricomposto nell’ambito di una concezione allargata di sviluppo, nella quale la valorizzazione delle risorse umane non è un costo da minimizzare, ma al contrario una grande opportunità, sia per aumentare la qualificazione e la competitività dell’intero sistema-paese sia per ampliare la gamma di beni e servizi ad alto valore aggiunto. Con altre parole potremmo dire che per stare sulla scena mondiale il nostro Paese non deve costare di meno (ci saranno sempre realtà con costi inferiori), ma al contrario valere di più.

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Gli obiettivi qui richiamati non possono essere perseguiti con l’armamentario di politiche economiche cui ha fatto ricorso il nostro Paese in tutti questi anni. Trattasi di politiche traguardate sul breve periodo, centrate su poche variabili aggregate e macro di carattere prevalentemente finanziario; di politiche subalterne alle vicende congiunturali internazionali e nel contempo incapaci di fornire un orientamento ai molti vitalismi locali; di politiche latitanti sul versante dell’offerta ovvero della predisposizione e gestione di un sistema articolato di interventi nell’ambito reale dell’economia (settori, sistemi di imprese, territori).
Come declinare lavoro e sviluppo in vista di una buona società in cui vivere? Ci sono a mio avviso tre passaggi fondamentali:
            Occorre in primo luogo investire nell’intelligenza. Ciò richiede uno sforzo massiccio nell’ambito della formazione, della ricerca, della realizzazione di reti attraverso le quali diffondere le innovazioni facendole fruttificare sul territorio. Questo però non è sufficiente. Occorre anche investire in una migliore qualità della vita per tutti. Vi sono bisogni ed esigenze che non possono più essere sacrificati a livello di cultura, lotta alla povertà e all’esclusione, sanità, protezione e valorizzazione dell’ambiente, ecc. Essi rappresentano nel contempo importanti “giacimenti” dai quali attingere per alimentare la crescita, radicandola più saldamente nella società civile. Per il nostro Paese vi è la necessità di risalire “a monte” per esercitare una capacità di controllo e di condizionamento sulle determinanti del progresso scientifico-tecnologico e nel contempo estendersi “a valle” per cogliere tutte le implicazioni del progresso stesso in termini di effetti moltiplicativi, di trascinamento, di generazione di nuove attività;
            In secondo luogo occorre creare un clima di fiducia tra i vari protagonisti della società e dell’economia, in particolare imprese, sindacati, istituzioni. La concertazione, intesa come scambio di impegni reciproci in vista di obiettivi condivisi, è una questione europea, nazionale e anche locale. La coesione del territorio è elemento strategico sia per il welfare della comunità che vi risiede sia per il suo sviluppo economico.
            In terzo luogo occorre solidarietà. Solidarietà tra uomini e donne, tra padri e figli, tra regioni ricche e regioni povere, tra chi ha risorse finanziarie e chi ha capacità di iniziativa economica e sociale e chiede di essere sostenuto. La solidarietà è altresì presupposto per l’efficacia degli indispensabili processi di riconversione produttiva. Un ponte tra la “distruzione” di attività (e quindi di posti di lavoro che non hanno più una ragionevole prospettiva) e la “creazione” di nuove iniziative e possibilità occupazionali. La compensazione – quando c’è – non è né meccanica né automatica. Occorre tempo e in molti casi il “capitale umano” che viene espulso dalle industrie che si ristrutturano non è lo stesso che domani sarà impegnato nelle nuove attività.
Attraverso le politiche, sommariamente richiamate, passa in misura non marginale la strada del riformismo nel nostro Paese. Esso non può essere interpretato né al ribasso né tantomeno in chiave autoreferenziale. Deve essere solidale di un disegno di trasformazione reale. Un disegno nel quale far convergere le politiche di breve e le politiche di medio e lungo termine (oggi del tutto mancanti), nel quale far interagire il pubblico, il privato, il privato-sociale (il gioco non è affatto a somma zero); nel quale armonizzare l’insieme e le parti (il federalismo è un patto per unire e non per dividere); il mercato e lo stato; la libertà e la regolazione; la flessibilità e la sicurezza.
Si parla giustamente di “patto per il lavoro e la produttività”. Esso riveste un’importanza strategica non solo per il nostro Paese ma per l’Europa intera. La questione occupazionale travalica i confini dei singoli stati per investire la responsabilità dell’Unione Europea la quale sembra talvolta dimenticare che la crescita costituisce un suo obiettivo prioritario in quanto senza di essa rischia di incrinarsi l’economia, il mercato comunitario e la stessa coesione sociale. Il passaggio dall’ottica del singolo stato nazionale all’ottica dell’Unione Europea, potrebbe significare il passaggio da una politica di controllo rigido della domanda a una politica espansiva finalizzata al lavoro e una migliore qualità della vita. Si tratterebbe di riattualizzare Keynes nell’era del postfordismo, attenti alla qualità (e non solo alla quantità) della domanda da suscitare. Problemi all’apparenza irrisolvibili a livello di singolo paese – altrimenti salterebbe la bilancia dei pagamenti, ripartirebbe l’inflazione – possono non rivelarsi tali a scala di Unione Europea ove risulta possibile far operare meccanismi di stimolo, di compensazione, di rilancio. Certo l’Europa non è un’isola autosufficiente, deve fare i conti con il mercato mondiale. Ciò è vero, però l’Europa può essere un soggetto politico, economico, culturale in grado di orientare, per la sua parte, i processi di globalizzazione in atto verso obiettivi di maggiore equilibrio, giustizia, solidarietà interna ed esterna.
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