sia perché per la prima volta l’epicentro più violento è tutto nel cuore del sistema capitalistico liberale; sia perché le istituzioni della politica e gli Stati (Unione Europea in testa) hanno saputo svolgere un ruolo di governo inedito per tempi, modi e profondità degli interventi.
Tutto ciò sta provocando reazioni e prospettive di trasformazione a livello internazionale dagli scenari del tutto aperti anche alla configurazione di quel Nuovo ordine economico internazionale di cui tanto si è parlato in decenni ormai lontani (erano i tempi delle risoluzioni delle Nazioni Unite degli inizi degli anni ’70). Dalla trasformazione de facto del G8 al G20, alla fine del tabù dell’intervento dello Stato in economia che ci accompagna da oltre 25 anni, fino al pensiero che si possa rivedere su basi del tutto diverse il sistema del governo dell’economia e del commercio internazionale, riconfigurando su nuove basi la governance del FMI e riportanto l’OMC in seno al sistema delle Nazioni Unite.
Di colpo, battaglie a lungo inseguite da politici, intellettuali e movimenti su scala planetaria passano dai sogni alle realtà delle agende della politica internazionale e dei vertici economici.
La storia, spesso, effettua delle improvvise accelerazioni che travolgono posizioni di rendita e muri insormontabili, e costringono tutti gli attori a ripensare propri ruoli e azioni. Gli scenari sono del tutto aperti e nessun esito è scontato, ma l’improvvisa riscoperta delle buone ragioni del ruolo regolatore del pubblico, della logica di regole etiche e sanzionabili per i comportanti economici, della buona pratica della cooperazione internazionale facendo prevalere sui legittimi interessi particolari e/o nazionali la necessità di un bene comune più ampio, – e la lista potrebbe continuare – sono di per sé delle buone notizie.
Ma bisogna evitare di adagiarsi e guardare alla crudezza dei processi reali. Non sempre i soggetti che sono chiamati cogliere il senso della svolta sono stati davvero in grado di farlo. Basti pensare alla sorte di grandi imperi e civiltà del passato, anche piuttosto vicino, come quello britannico. Può essere il caso dell’Europa, il cui modello di governo e la cui leadership è senza dubbio tornata al centro di tutto il sistema in poche settimane, ricomponendo anche fratture storiche tra le due sponde del canale della Manica ma per la quale rimangono i limiti della sua attuale struttura istituzionale e le tentazioni corporative e di continente un po’ invecchiato e decadente, con corpi sociali e opinioni pubbliche che faticano a proiettarsi sul lungo termine e spesso preferiscono ripiegarsi. Ma è il caso anche della Cina, costretta finalmente a fare due cose che non ha mai fatto: occuparsi di una crescita sana e sostenibile del mercato interno e mettersi in un’ottica di maggiore cooperazione. E’ il caso di tutto coloro che vantavano grandi ambizioni sui prezzi folli dell’energia, fossero essi il Venezuela di Chavez, l’Iran di Ahmadinejad o la Russia di Putin. E’ il caso dei paesi emergenti (i famosi BRIC, Brasile, India e Cina cui si aggiunge il Sudafrica) oggi chiamati a farsi carico di responsabilità nel governo dei processi, a partire dalle rispettive aree tematiche, ma senza cadere nelle già evidenti tentazioni e pratiche di brutali modelli neocoloniali e imperiali verso le zone del mondo più povere, ma ricche di materie prime, Africa in testa.
Nessuna illusione dunque, soprattutto se si guarda con realismo alle possibili conseguenze di questa crisi sui paesi più poveri, una regola antica di misurazione della validità dei processi economici che non va dimenticata: ciò che è buono per chi è più debole, alla fine è buono per tutti.
Certo, molti paesi emergenti, e tra questi soprattutto quelli più poveri, non sono ancora stati travolti direttamente dalla crisi finanziaria. Soprattutto le loro fragili e poco internazionalizzate istituzioni finanziarie erano certamente assai poco esposte sui marosi dell’imperante economia di carta e così è ben difficile che in Africa o anche in molta parte dell’Asia ci siano casi come Citigroup, Northern Rock, Lehman Brothers, Fortis o anche solo Unicredito. Tuttavia gli effetti della crisi già si stanno espandendo in queste aree, con conseguenze negative in termini di crescita e di riduzione della povertà. L’integrazione finanziaria più avanzata e globale della storia oggi diventa un fattore di grande rischio e in effetti negli ultimi cinque anni il volume complessivo del credito verso i paesi in via di sviluppo, certo diffuso in modo assai differenziato a seconda delle aree del mondo, era complessivamente triplicato, arrivando a 3100 miliardi di dollari.
La crisi si trasmette a questi paesi attraverso due canali principali. In primo luogo, la crescita negativa nei paesi OCSE si traduce in un forte calo delle importazioni, sia di materia prime che di prodotti manufatti da paesi terzi, che blocca anche quei lenti processi di trasformazione delle strutture economiche verso modelli produttivi a più forte valore aggiunto, riducendo il reddito locale delle fasce di lavoro più “decente” e generando quindi contrazione della domanda e nuovo impoverimento delle strutture sociali. In secondo luogo, poiché oggi si è instaurata una paura enorme di ogni forma di rischio, è evidente che vi sarà una veloce domanda di rientro dei prestiti maggiormente a rischio nei PVS ed una complessiva riduzione dei flussi di investimento in questi paesi, riducendo la disponibilità di credito o aumentando a dismisura i tassi di prestito, in modo del tutto insostenibile per le già fragili strutture produttive di micro e medie imprese di tanti paesi del sud del mondo. I dati parlano chiaro: i tassi di interesse sui principali mercati dei paesi del sud sono già i più alti degli ultimi cinque anni; l’indice borsistico dei paesi emergenti ha già perso il 53% rispetto al suo massimo annuo e tutte le valute dei paesi emergenti hanno perso almeno un quarto del proprio valore rispetto al dollaro americano dal mese di luglio ad oggi.
A questi due canali vanno aggiunte le più che probabili drastiche riduzione sul fronte delle rimesse degli emigranti, che in quasi tutti i paesi dell’area OCSE sono i primi a pagare duramente l’aumento della disoccupazione. Bisogna infatti ricordare che per alcuni paesi dell’Africa in particolare tali rimesse rappresentano un volume di gran lunga superiore a tutte le altre forme di flussi finanziari esterni.
Inoltre, al di là delle garanzie fornite su base internazionale, è più che probabile che tutti i principali flussi di aiuto allo sviluppo, sia pubblici che del settore no-profit, subiscano un rallentamento quando non significative riduzioni.
In termini concreti, il FMI ha previsto per il 2009 una riduzione significativa, anche superiore ai 3 punti percentuali dei tassi di crescita di molti paesi in via di sviluppo, sia tra quelli più forti che tra quelli più deboli. Una diminuzione dell’1,5 della crescita in Africa, che è il minimo già assodato, è pari oggi a due volte tutto l’aiuto pubblico mondiale esistente.
Il mondo in via di sviluppo si trova dunque a dover subire le conseguenze di questa crisi, in aggiunta a tre altre crisi globali gravissime: quella alimentare (dimenticata per oltre vent’anni) quella energetica e quella climatica. Ciascuna di queste tre è di per sé detonatore (a breve o medio termine) di conseguenze devastanti per molte economie fragili e soprattutto per i paesi più poveri.
Come dimenticare che con una spesa di circa 300 miliardi di dollari all’anno, vale a dire un terzo dell’attuale spesa militare globale, si potrebbe sradicare la povertà dal mondo. Che tale cifra è meno della metà di quanto stanziato dal governo Usa per far fronte alla crisi finanziara ed è probabilmente assai meno di quanto complessivamente già messo in campo dai diversi paesi dell’Unione europea per salvare e garantire il mercato bancario, assicurativo e finanziario continentale e sostenere alcuni settori industriali più sensibili.
Dice un antico proverbio africano: “se mangia il topolino, anche l’elefante non muore di fame”. Forse in questo adagio può stare la riscoperta da parte dell’Europa di una antica missione, facendo del suo partenariato strategico con l’Africa la grande scommessa di una nuova stagione di crescita e prosperità per tutti.
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