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I due fatti più importanti della crisi finanziaria globale degli ultimi giorni sono il G20 e le proteste dei manifestanti nei confronti delle banche. Il G20 sembra aver intenzione di affrontare alcune delle riforme decisive per rimuovere le cause profonde della crisi ma è ancora poco chiaro se questa volontà, sollecitata dalla protesta popolare, si trasformerà in fatti al momento del dunque.

Come ormai tutti sanno si tratta di creare un sistema di vigilanza internazionale, di sottoporre a regolamentazione gli intermediari finanziari non bancari (società veicolo, hedge funds), di modificare la distorsione delle regole di capitalizzazione patrimoniale delle banche inducendole ad accumulare nei periodi positivi munizioni utili per i momenti di crisi. E, ultimo ma non meno importante, di combattere i paradisi finanziari (si veda l’editoriale di Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore di sabato 4 Aprile). In quest’ultimo caso non si tratta solo di eliminare una concorrenza fiscale che toglie agli stati sovrani le risorse necessarie ad affrontare i costi sociali della crisi e, più in generale, a sostenere i propri sistemi di welfare (va ricordato che economisti autorevoli come Mario Monti hanno da tempo sollevato il problema impegnandosi per l’obiettivo dell’armonizzazione fiscale in tempi non sospetti) . Il danno meno visibile ma forse più grave dei paradisi fiscali al sistema economico internazionale è quello di offrire spazi di opacità che consentono, attraverso legami reali ma invisibili tra partecipate, di aggirare regole contabili e regole di antitrust ledendo i principi fondamentali dell’economia di mercato. Per intenderci, ricordandoci anche del caso Parmalat, non è fantascienza pensare che una società possa evitare di dover consolidare in bilancio l’attività di una società veicolo cui viene delegata l’operatività in derivati, partecipandola al di sotto della soglia che impone l’incorporazione dei suoi risultati nei bilanci della casa madre, ma controllandola poi di fatto con una terza società che ha sede in un paradiso fiscale. Rendendo a questo punto impossibile valutare la reale esposizione in derivati e spiegando la paralisi del sistema dopo la crisi. Con questo meccanismo è anche possibile aggirare tutte le leggi della concorrenza e far apparire concorrenti due attori che invece non lo sono se si considerano i legami invisibili intrecciati nello spazio opaco dei paradisi.

Dall’altra parte, nella rabbia della protesta popolare spunta fuori anche molta demagogia. Come in ogni momento come questi si fa di ogni erba un fascio identificando nelle banche tout court le responsabili della crisi e non in quel particolare tipo di banche che ha creato ed alimentato il rischio sistemico dei derivati legati ai mutui subprime.

Rispuntano in momenti come questi, anche da personaggi autorevoli, pregiudizi tradizionali che concepiscono come utile per la società e degno di remunerazione solo il lavoro di chi produce beni tangibili (ma visto in prospettiva ecologica non sono più ambientalmente sostenibili i beni intangibili ?)  domandandosi quale sia il lavoro dei banchieri e cosa essi producano.

Appare drammatico proprio in questi momenti il vero problema di fondo di oggi. L’economia in cui viviamo è complessa e richiede un’ istruzione finanziaria enormemente superiore. In Italia per esempio, con uno stock del 10 percento di laureati sarà presumibilmente non superiore al 2 percento la quota di coloro che conoscono il contributo fondamentale della banca al funzionamento dell’economia (servizi di aggregazione del risparmio, selezione dei progetti su cui investire, servizi di liquidità fondamentali per il delicato equilibrio tra esigenze dei depositanti e degli imprenditori che investono nell’economia reale, ecc.).

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La cultura finanziaria del paese non cresce appesantendo le normative ma agendo nelle scuole.

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A che serve far firmare pagine e pagine di nuovi moduli con la nuova direttiva Mifid dove si chiede al contribuente di dare risposte su una serie di questioni di carattere finanziario se poi non c’è nemmeno un’ora nei licei in cui si parli di banca e di economia (e del principio fondamentale per cui attività finanziarie che promettono rendimenti più elevati devono essere necessariamente più rischiose)?

Mai come oggi i mondi della formazione scolastica (il mondo della cultura e della storia senza la contemporaneità) e quello del lavoro (il mondo della contemporaneità senza la storia) sono stati più distanti ed incomunicabili con la responsabilità di provocare tra l’altro lo spaesamento dei giovani che si affacciano dopo la scuola al mondo dell’università e del lavoro. Eppure le discipline sociali della contemporaneità sono piene di filosofia e di storia e il mondo del lavoro ha bisogno di alimentarsi alla sorgente della storia e della filosofia della nostra civiltà per non prendere sbandate che guarda caso arrivano proprio da quei paesi dove le basi storiche, filosofiche e culturali della nostra civiltà sono meno curate.

Formazione permanente per gli adulti e discipline economico-sociali nelle scuole (dibattute criticamente nella loro complessità e bellezza) sono la soluzione di lungo termine del problema se vogliamo uscire dal triste schema dell’untore e della cieca rabbia popolare.

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