Becchetti infatti sostiene – ed io condivido in pieno – la necessità di un “giusto mix di politica e regole migliori” per promuovere, incoraggiare e sostenere la produzione di “beni pubblici” da parte dei privati, in particolar modo degli imprenditori. Trasformare risorse, produrre ed utilizzare “tecnologia”, organizzare la produzione, impostare strategie di marketing e di vendita, insomma il “fare impresa” è un’azione che può contribuire alla realizzazione di un tipo di società, di sistema di relazioni interpersonali piuttosto che ad un altro. Non solo. Ha a che fare con la cultura ed i “saperi locali”, diffusi e non, codificati e non; ed ancora la produzione di beni (privati) ha sempre un impatto di tipo “etico”. Non è chiaramente un’ intuizione recente né innovativa, anzi si tratta di acquisizioni presenti in molte analisi e studi che hanno come oggetto il rapporto economia-società, ma credo che oggi assuma nuove potenzialità e valenze in vista della ricerca del “bene comune”, offrendo un orizzonte teorico e concettuale ad esperienze e pratiche che si stanno manifestando anche nel nostro frammentato e “mucillaginoso” Paese.
Un esempio concreto è infatti quello che ci viene offerto dalle associazioni imprenditoriali siciliane, le quali da molti mesi hanno ingaggiato una seria ed inedita rivolta alle pressioni della criminalità mafiosa. Si tratta di una battaglia giocata su più campi: culturale, giudiziario ed economico.
Su quello culturale, giocato soprattutto sul fronte interno Confindustria Sicilia, il presidente Lo Bello e gli altri rappresentanti degli imprenditori siciliani sono stati solidali con chi ha denunciato estortori, mafiosi e criminali che vivono alle spalle del mondo produttivo ed hanno incoraggiato comportamenti virtuosi ed “emulativi” in tale direzione, sanzionando ed isolando quanti invece hanno perpetrato complicità e omertà ed, infine, adottando un severo codice etico .
Su quello giudiziario, si è dato un impulso ed una incondizionata collaborazione all’azione delle forze dell’ordine e della Magistratura, mentre su quello economico gli imprenditori hanno saputo affermare una volta per tutte che la criminalità e la mafia sono un costo (non solo sociale) pagato da tutti gli operatori economici che finisce per impoverire la collettività a vantaggio dell’arricchimento di pochi. Numerosi studi e ricerche hanno dato corposità a tali consapevolezze, ma soprattutto è la mentalità diffusa dei siciliani che è stata profondamente interpellata e provocata: c’è una nuova speranza, una nuova intuizione, un cambiamento possibile.
Occorre incoraggiarlo, sostenerlo, rafforzarlo a livello istituzionale: è il tempo della politica, anzi delle politiche (pubbliche) e delle “regole migliori” invocate da Becchetti, ma è anche il tempo della coscienza civile e di quanti credono in uno sviluppo del Mezzogiorno che parta dall’originale valorizzazione delle sue risorse, da una nuova stagione “imprenditoriale” capace di coniugare competenza e innovazione piuttosto che dalla rincorsa affannosa, sovente perdente, di modelli vincenti altrove.
Ma questa è un’altra storia.