Siamo in presenza di una crisi globale legata all’ utilizzo distorto del capitalismo. Esso ha stimolato il profitto da distribuire agli azionisti, agli amministratori e ai dirigenti delle grandi imprese e in particolare di quelle finanziarie, come unico metro di giudizio del successo personale e dei rispettivi gruppi di appartenenza. La mancanza di regole molto più severe inerenti la finanza ha permesso di puntare su prodotti derivati che hanno generato una catena senza fine e senza consistenza.

Il sistema bancario mondiale invece di sostenere piani di sviluppo imprenditoriale, accettandone il rischio calcolato, ha preferito rincorrere impieghi finanziari ed i collegati “facili” profitti da poter poi distribuire.
Si è complessivamente avuto un’ evidente trascuratezza verso le esigenze dell’ economia reale e delle sue imprese(soprattutto le PMI sono state danneggiate).
 
Quadro generale
Attualmente è noto che incominciano a farsi vedere alcuni segnali positivi di ripresa della domanda e della produzione, ovvero di allentamento della morsa della crisi. Purtroppo la situazione della occupazione in Europa mostra un incremento della disoccupazione che da settembre 2008 allo stesso mese 2009, ha portato nei paesi che hanno adottato l’ euro, la disoccupazione al 9,7%, con un incremento in un anno di due punti ed una perdita di posti di lavoro di tre milioni che, se  riferiti a tutti i paesi dell’ Unione, diventano  5 milioni (Fonte Eurostat). Purtroppo tutti gli osservatori economici concordano nel ritenere che la disoccupazione non ha ancora toccato il massimo e che ciò avverrà nel prossimo anno.
Appare perciò chiaro che anche le medie e le piccole imprese, preoccupate della crisi globale, hanno provveduto a ristrutturare e ad innovare. Hanno così contribuito a far diminuire l’ occupazione ( la grande impresa , nonostante le specifiche politiche di sostegno, è da tempo che continua a perdere occupazione). Occorre però guardare alla più intensa e nuova domanda di qualità della vita a livello europeo ed anche alla necessità di affrontare con determinazione il supporto che l’ Europa deve mettere in atto a sostegno dei paesi in via di sviluppo africani. Tale linea permetterebbe di bloccare l’ emigrazione che rischia sempre più di franare sull’ Europa in un momento che, come si è detto, è caratterizzato dalla crescita della disoccupazione.
 
Occorre ripartire dall’ obiettivo della coesione sociale che pervade le linee di intervento comunitario. Non è un caso, quindi, che il Parlamento Europeo ha approvato una Risoluzione sull’ economia sociale il 19 febbraio 2009, sottolineando che detta  economia rappresenta il 10% di tutte le imprese europee, vale a dire 2 milioni di imprese piccole e medie, che fanno il 6% dei posti di lavoro. Si tratta di occupazione stabile perché non decentrabile e basata su bisogni strettamente collegati alla popolazione. << L’ economia sociale – dice testualmente la Risoluzione – si è sviluppata attraverso forme imprenditoriali organizzative o giuridiche particolari come cooperative, mutue, associazioni, imprese e organizzazioni sociali e fondazioni>>.
In sintesi il Parlamento Europeo, con la Risoluzione, invita la Commissione a <<promuovere l’ economia sociale attraverso le sue nuove politiche e a difendere il concetto di “ fare impresa in un altro modo” insito nell’ economia sociale, la cui principale forza propulsiva non è la redditività economica, bensì la redditività sociale>>. Si profila perciò in Europa una significativa  presa di coscienza a carattere pluralistico, poiché a fianco dell’ impresa commerciale profit e di  quella statale, si inserisce l’ impresa sociale non profit con la possibilità di essere particolarmente utile in ambiti e circostanze sempre più significativi (per esempio per promuovere  la qualità della vita).
 
In ogni caso occorre tenere presente che in Europa è in corso un dibattito per giungere ad una definizione comune di impresa sociale  per la quale appare già possibile indicare, in almeno cinque punti, i principali cardini di cui si dovrebbe comporre:
–         opera per finalità di interesse collettivo
–         non distribuisce gli utili prodotti
–         reinveste gli utili nell’ impresa sociale stessa
–         può coinvolgere molti cittadini (public company)
–         può avere partecipazioni minoritarie di imprese commerciali e/o imprese di stato

Va poi sottolineato che il premio Nobel per l’ economia del 2009, è stato assegnato, come è noto,  all’ americana  Elinor Ostrom che, già nel 1990, aveva pubblicato un importante lavoro su come <<  Governare i beni collettivi>> ( Marsilio,2006). La riflessione critica della studiosa è portata alla classica dicotomia novecentesca su sfera del pubblico e sfera del privato, che viene superata anche grazie allo sviluppo quantitativo e qualitativo del terzo settore. La gestione dei beni collettivi introduce il concetto di mercato sociale, cioè di un mercato nel quale, per esempio, le utilities permettono la soluzione di problemi collettivi ( si pensi all’ acqua, all’ energia elettrica, al gas, ma anche alla gestione della pesca marina e dei terreni delle Comunità Montane).
Un recente esempio appare quello della riforma che negli USA Obama sta facendo passare per erogare l’ assistenza sanitaria a milioni di persone che sono senza  adeguata copertura ( America’s Healthy Future Act 2009 ), dovuta anche alle loro modeste condizioni economiche. La mediazione più importante è stata quella che tra gestione statale e gestione privata del sistema nascente, si è scelta l’ opzione dell’ uso molto articolato del non profit.
 
L’ insieme di queste considerazioni attestano che qualcosa di profondamente nuovo si sta muovendo alla ricerca di soddisfare i nuovi bisogni emergenti di qualità ( a partire dai territori più sviluppati) e di eliminazione delle povertà ( a partire dai paesi in via di sviluppo e non solo).
 
Alcune considerazioni sull’ Italia.
Il quadro italiano è anch’esso in movimento da tempo. In sintesi si possono richiamare alcuni punti:
–         il paese possiede un significativo serbatoio di domanda potenziale di imprenditorialità sociale rappresentata dal 15% della popolazione adulta che  è dedita sistematicamente all’ impegno di volontariato prolungato (40 settimane annue per 6 ore settimanali) e il 23% è impegnato nell’ associazionismo sociale. Ciò vuol dire che, al netto di duplicazioni, circa un cittadino adulto ogni quattro è impegnato nel  settore non profit
–         queste persone danno vita a 21mila organizzazioni di volontariato e a 235 mila organismi non profit( tra i quali operano 7 mila e 400 imprese cooperative sociali e quasi 4 mila fondazioni di scopo)
–         detti organismi del terzo settore occupano stabilmente oltre 800 mila soci lavoratori e/o dipendenti che rappresentano il 3,5% circa dell’ occupazione
–         se a questo dato si sommano le altre imprese cooperative, anch’ esse non profit, si perviene all’ 11% circa dell’ occupazione complessiva
–         si tenga conto che la richiesta di personale da parte di questo settore risulta significativamente più qualificata rispetto a quella del settore profit ( Sistema Informativo Exceelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro) .
 
Se dal quadro tracciato  si cerca di esplorare le tendenze in atto,  esse appaiono di  indubbio interesse soprattutto in un periodo di difficoltà occupazionale. Se ne propongono alcune:
–         la domanda di qualità della vita cresce in tutte le aree del paese( dalla sanità  all’ assistenza,dalla cultura alla ricreazione)
–         cresce la  domanda di far fronte alla eliminazione della povertà materiale e delle nuove povertà( per esempio la solitudine degli anziani)
–         le imprese profit non riescono a rispondere a queste e altre domande perché i margini di redditività sono troppo limitati. Essi possono ,invece, andar bene per le imprese non profit che puntano sulla massimizzazione dell’ utilità sociale
–         il tema della sussidiarietà attraverso il passaggio dallo stato sociale alla comunità sociale ( dove lo stato regola e controlla, lasciando la gestione a forme omologate di impresa sociale e non) ha bisogno dell’ apporto del terzo settore
–         la domanda dei cittadini-utenti di potersi riappropriare della facoltà di decidere quale scegliere tra le offerte di servizi omologati
–         la possibilità, aperta dalla recente legge sull’ impresa sociale, di realizzare delle partecipazioni di minoranza in imprese sociali da parte di imprese profit o di stato (vanno segnalate, a tale riguardo, interessanti applicazioni relative ad asili aziendali, centri commerciali all’ aperto, fattorie agricole didattiche).
 
L’ insieme di dette tendenze permette di affermare che, anche nel nostro paese, l’ imprenditorialità sociale può crescere e generare buona occupazione. Può, inoltre, contaminare coi suoi valori le imprese profit e quelle di stato.

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