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Gli articoli di Giavazzi sono sempre di grandissimo interesse e stimolo. Proprio per questo, quando alcune opinioni non collimano viene la voglia di rispondere con un contributo o di proporre argomentazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle sviluppate.

Attraversando con perizia una gran quantità di temi ,Giavazzi lancia un grido di dolore a metà articolo da cui vorrei ripartire quando constata che “il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato?”

Io partirei proprio dal concetto di mercato. Nei libri di testo che utilizziamo per i corsi introduttivi di economia i limiti e i pregi del mercato sono ben evidenziati. Il mercato è uno strumento eccezionale che, per definizione, attraverso lo scambio aumenta il benessere dei due attori della transazione. Allo stesso tempo però esso non è in grado, di per sé, di intervenire sulle dotazioni iniziali (sui “soldi in portafoglio”) con i quali i due soggetti arrivano al momento dello scambio.

Per fare un caso paradossale il ragionamento si applica perfettamente anche ad una vendita illegale ma consenziente di organi. Chi vende il proprio organo (se non costretto con la violenza ma in piena libertà) lo fa perché pensa di trarre un beneficio dalla transazione. Così chi lo compra.

Faccio quest’esempio paradossale perché attraverso di esso il pregio del mercato (miglioramento del benessere dopo lo scambio rispetto alla situazione ex ante) e il suo difetto (impossibilità di incidere sulle condizioni a priori) siano evidenti e, in particolare, il difetto sia presente nella forma più ampia possibile.

Traducendo ed estendendo, se appartengo al miliardo di “incagliati” che vive con meno di un dollaro al giorno, il mercato (la vendita del rene nell’esempio paradossale) non basterà a modificare sostanzialmente la mia dotazione e a far studiare i miei figli in modo da migliorare stabilmente le mie prospettive e quelle della generazione successiva. Saranno necessari interventi di supporto che rendano possibile accesso al credito e all’istruzione e che creino infrastrutture. Senza di questi le risorse dei ricchi che “sgocciolano” a valle possono ben poco. E le mie transazioni rifletteranno la miseria delle condizioni di partenza.

Alla luce di quanto sopra, credo che coloro che se la prendono col mercato abbiano una comprensione intuitiva dei suoi limiti molto più evidente di quella dei suoi pregi dettata proprio dalle condizioni di partenza, ma credo anche che chi esalta il mercato senza proporre in maniera equilibrata un analisi dei suoi pregi e dei suoi limiti, rischi di alimentare questa ostilità. Rinfocolando quegli atteggiamenti protezionisti che finiscono poi per “gettare il bambino con l’acqua sporca”.

Meglio sarebbe argomentare nel seguente modo: più mercato e, in particolare la lotta a rendite monopoliste ed oligopoliste può migliorare il benessere dei consumatori. Accanto a queste politiche è necessario affiancare un impegno per le pari opportunità senza il quale i benefici del mercato non possono essere goduti da un numero molto elevato di persone.

L’entusiasmo di Adam Smith per aver scoperto i pregi del mercato lo portava ad osservare come, attraverso la mano invisibile, la concorrenza è in grado di riconciliare gli interessi individuali perseguiti da produttori e consumatori in un risultato socialmente ottimo. Non è grazie alla benevolenza del macellaio che troviamo ottima carne a buon prezzo, diceva Smith, ma in virtù della sua ricerca di profitto che paradossalmente si traduce in prezzi accessibili grazie alla pressione degli altri concorrenti.

Come imparano però tutti gli studenti di primo anno, questo risultato dipende da condizioni talmente restrittive da rappresentare piuttosto l’eccezione che la regola. Nella realtà la presenza di beni e mali pubblici e le esternalità fanno saltare questa coincidenza tra scelta ottima dell’individuo e scelta ottima sociale e costringono continuamente le autorità a prendere decisioni relativamente a un gran numero di materie quali riduzione dell’inquinamento, sanità, istruzione ecc. che non possono essere abbandonate alla sola azione di mercato.

Si può obiettare che molti dei problemi che viviamo dipendono dal fatto che c’è poco mercato e non dal fatto che ce n’è troppo. Bisognerebbe entrare in ogni settore ed approfondire per vedere se questo è vero.

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Ma il problema in realtà è più profondo.

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Il mercato va temperato anche e soprattutto nella costruzione della scala di valori che orientano l’agire umano. Una banca quotata in borsa deve massimizzare il benessere degli azionisti e dunque questo valore è di fatto quello in cima alla lista. Un dipendente della banca, pressato dalle esigenze di dover portare a casa una buona performance, viene continuamente tentato dal vendere al cliente prodotti le cui caratteristiche di rischio non sono ben comprese dal cliente, o obbligazioni di società di cui si conoscono già le condizioni di dissesto che al cittadino comune non sono ancora note. Le conseguenze di questa storie le conosciamo. Un’azienda può pagare un manager svariati milioni di euro e offrire buonuscite miliardarie non correlate alla performance perché crede in questo modo di attrarre i migliori e quelli più in grado di creare valore per gli azionisti e può, al contempo, rendere più precario il lavoro di una parte dei suoi dipendenti perché ciò crea valore per gli azionisti (e magari risparmia risorse per pagare i manager). Dunque la creazione di valore per l’azionista come valore unico e principale entra di fatto in conflitto con il benessere dei consumatori, con quello dei lavoratori o degli individui in quanto portatori di relazioni. Il fatto che nell’economia moderna non esiste più il padrone delle ferriere ma i profitti possano arrivare a piccoli azionisti e ai futuri percettori di pensioni non elimina il problema ma lo trasforma in un conflitto distributivo o addirittura interno (tra il nostro essere azionista e il nostro essere consumatore).

Siccome il buonsenso (ma se vogliamo dargli un tono scientifico anche gli studi sulla felicità) suggerisce che l’essere consumatori ed azionisti sono elementi più “accidentali” di quelli più “sostanziali” relativi alla vita di lavoro e di relazioni, la scala di valori di un mercato non temperato finisce per incidere negativamente sulla soddisfazione di vita dei cittadini (se non di tutti, sicuramente di quelli che si trovano più in basso nella scala del benessere economico).

Dunque, tornando al punto principale, se vogliamo convincere l’opinione pubblica che in Italia c’è troppo poco mercato e che rendite di posizione riducono le possibilità di crescita del paese dobbiamo essere altrettanto chiari ed espliciti sui limiti del mercato (proponendo soluzioni in materia) quanto lo siamo verso i suoi pregi.

Giavazzi afferma che merito, concorrenza e mercato favoriscono la crescita. Gli studi statistico-econometrici sulle determinanti dello sviluppo economico evidenziano il ruolo fondamentale del capitale umano e del grado di scolarizzazione di un paese. In un paese che è in fondo a tutte le classifiche degli indicatori scolastici nell’OCSE e dove un italiano su due non ha più che la licenza media per stimolare la crescita non basta puntare sull’eccellenza. Bisogna far crescere tutta la base. Riconoscendo ovviamente che l’incapacità di premiare il merito può disincentivare i giovani da investire negli studi.

Mercato e globalizzazione sono e restano due opportunità provvidenziali per costruire opportunità di sviluppo ma abbisognano di una cornice di regole per poter orientare questa poderosa macchina verso una creazione di valore che sia ambientalmente e socialmente sostenibile perché questa è la direzione di marcia che consentirà di massimizzare la soddisfazione di vita delle generazioni correnti e future.

Un’ultima annotazione. In un mondo nel quale i cittadini hanno cominciato a promuovere direttamente dal basso questa trasformazione attraverso il loro “voto col portafoglio”, in assenza di istituzioni internazionali forti un’opportuna organizzazione delle regole mercato può aiutarci a raggiungere gli obiettivi verso cui tendiamo. Con una forte disponibilità a pagare per i contenuti sociali ed ambientali dei prodotti i consumatori e risparmiatori “eticamente orientati” stanno costringendo le imprese ad “internalizzare le esternalità” facendole assumere maggiori responsabilità sociali. Rinforzare questi meccanismi grazie ad una maggiore informazione sul rating sociale delle imprese darebbe enorme stimolo a meccanismi di riequilibrio del sistema in direzione della felicità economicamente ed ambientalmente sostenibile. E’ tra l’altro avrebbe il non trascurabile effetto, tornando alla domanda iniziale di Giavazzi, di migliorare la reputazione del mercato.

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