rnAi nostri amministratori pubblici che hanno messo a rischio i loro bilanci e le risorse da destinare al benessere della collettività, comprando strumenti di finanza derivata sbagliati, diciamo che bastava rifarsi ai frutti di quella cultura e di quella saggezza antica e rileggere Collodi. Pinocchio, con quei denari che doveva riportare a papà Geppetto, incontra il gatto e la volpe che lo prendono in giro per la sua dabbenaggine e fingono di sorprendersi per la sua ignoranza: esiste il campo dei miracoli dove i soldi che vengono seminati si moltiplicano. E’ la storia dei nostri giorni.
Più volte abbiamo sottolineato con decisione le cause della crisi e le potenziali vie d’uscita mettendo anche in evidenza purtroppo la mancanza di volontà di porre in atto le misure adatte ad uscire dall’emergenza.
E’ bene comprendere fino in fondo i suoi aspetti micro e le tante miserie che essa nasconde. La causa scatenante è rappresentata dal peso sempre più importante nei bilanci aziendali della vendita di prodotti complessi come gli strumenti di finanza derivata di cui solo decine di giovani traders al lavoro nelle maggiori banche internazionali sono in grado di calcolare il prezzo corretto attraverso sofisticati algoritmi. Neppure i manager delle banche di cui fanno parte sono in grado di capire fino in fondo il funzionamento di questi strumenti, ma i sistemi di bonus fondati sulla performance e sui profitti a breve portati a casa da tutti i dipendenti della struttura creano incentivi perversi spingendo i giovani leoni ad una serie di comportamenti fraudolenti. I prodotti venduti a clienti privati, imprese, amministrazioni locali sono apparentemente gratuiti (addirittura prevedono in molti casi pagamenti in direzione opposta, gli upfront) ma in realtà (molto spesso, ovviamente non sempre) contengono già un costo nei meccanismi di pricing che sono alterati. E’ come se si vendesse un’azione che vale 100 al prezzo di 110. L’acquirente parte già con una perdita del 10 percento ma non lo sa. I prodotti sono venduti con la motivazione nobile di coprire i sottoscrittori da vari tipi di rischio ma in realtà lo amplificano. Invece di realizzare un hedging completo (ovvero un’assicurazione completa dal rischio anche se costosa) mettono i clienti dal lato sbagliato dell’operazione costringendoli ad assicurare (a vendere rischio) e non ad assicurarsi dallo stesso. Con rimodulazioni successive del prodotto le scommesse (e i guadagni di chi vende) aumentano e il rischio si amplifica.
I sottoscrittori al momento della transazione firmano moduli di molte pagine che non leggono e nei quali c’è scritto che sono degli operatori professionali. Questo mette le banche al sicuro da eventuali azioni di rivalsa dei clienti una volta scoperti gli elementi nascosti dell’operazione. Tutto nasce dunque da una profonda asimmetria informativa sfruttata da chi vende i derivati. Nessuna massaia comprerebbe una pera a cento euro. Ma nel caso della finanza derivata quasi nessuno è in grado di capire cosa sta comprando e quindi tantomeno di comprendere se il prezzo è congruo.
La prova di questi comportamenti è nei fatti di questi giorni. Alcuni operatori di derivati “pentiti” hanno deciso di aiutare i clienti danneggiati e si sono trasformati in “sminatori”. Vanno con i clienti dalle banche a ricontrattare amichevolmente la posizione del loro assistito. Ricostruiscono la storia dei mispricing e delle rimodulazioni e propongono alla banca una transazione: il cliente paga quello che avrebbe dovuto in caso di effettiva copertura assicurativa e la banca la differenza tra questa cifra e quello che il cliente ha effettivamente pagato. Quasi tutte le banche accettano.
In che modo la furbizia a livello microeconomico si trasforma in stoltezza a livello aggregato mettendo in crisi i grandi istituti? Le responsabilità qui vanno al problema della leva e della carenza di regolamentazione.
Nel primo caso il punto chiave è il rapporto tra risorse proprie e risorse investite. Mentre nel settore dei prestiti tradizionali alla clientela i criteri di regolamentazione prudenziale limitano correttamente il rischio che le banche possono correre con il famoso 8 percento (rapporto tra patrimonio di vigilanza, ovvero risorse proprie e portafoglio dei prestiti aggiustati per il rischio) le operazioni sui derivati si svolgono prevalentemente su mercati non regolamentati senza alcun tipo di controllo. Al momento in cui è stata salvata dal fallimento, la Bear Sterns registrava un rapporto di leva tra capitale proprio e investimenti sui mercati finanziari pari a 35. Il hedge fund Carlyle Capital Group, anch’esso recentemente fallito, era a 32.
Per capire meglio possiamo pensare ad una partita di poker nella quale è possibile acquistare delle fiches pagandole un ventesimo rispetto al loro valore nominale (che determina poi il reale ammontare dei profitti e delle perdite dei giocatori). E’ intuibile che, con un effetto leva del genere, è assolutamente probabile che, alla fine del gioco, alcuni dei partecipanti accumulino delle perdite superiori alla loro capacità patrimoniale divenendo pertanto non solvibili e mettendo in crisi anche la capacità di riscuotere le vincite dei giocatori più abili o più fortunati.
Il paradosso è che Basilea II (l’accordo con il quale si intende tenere sotto controllo il rischio delle banche) considera i prestiti nel sociale (includendo quelli ad esempio alle parrocchie) ad alto rischio e assegna un coefficiente di ponderazione molto elevato, che equivale ad attribuire un rating BB- al prestito assimilandolo quasi ad un bond spazzatura. Allo stesso tempo le operazioni veramente pericolose poste in atto dalle banche (in parte anche per i problemi di complessità di valutazione ed asimmetria informativa) passano quasi inosservate.
Per usare un’altra metafora è come se il codice stradale stabilisse che le ambulanze devono fermarsi a tutti i semafori mentre giovanotti diciottenni alla guida di macchine da corsa possono superare i 200 orari in città.
A questi problemi si aggiunge la grande diffusione di un nuovo tipo di derivati (i credit default swap) con caratteristiche di aleatorietà maggiori (difficoltà di valutazione del sottostante rappresentato dal merito di credito dell’insieme dei singoli clienti i cui debiti hanno contribuito alla costruzione del prodotto strutturato).
Il detonatore di questi ingredienti esplosivi sono i volumi aggregati di questo mercato ormai fuori controllo. Mentre il PIL mondiale è di circa 56 trilioni di dollari il valore nozionale dei credit derivatives ha superato i 58 trilioni di dollari e quello complessivo del mercato dei derivati 1288 trilioni di dollari, 24 volte il Pil mondiale.
L’istituzione più consapevole di quello che sta succedendo, la Banca per i Regolamenti Internazionali, rileva preoccupata nella relazione annuale del 2007, l “posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo”.
Le soluzioni per questa crisi ci sono ma la volontà di attuarle ancora non si vede all’orizzonte. Le elenchiamo rapidamente. Primo, è necessario proibire a “clienti sensibili” come le amministrazioni pubbliche di acquistare strumenti derivati. La regola è già in vigore da tempo nel Regno Unito ed è stata adottata temporaneamente per un anno anche in Italia. Va adottata a tempo indefinito anche da noi. Non è possibile che enti preposti a finalità sociali mettano a rischio le proprie risorse giocando d’azzardo, consapevolmente o inconsapevolmente. Secondo, le banche centrali, che sono intervenute per salvare gran parte degli intermediari coinvolti, devono pretendere d’ora i poi la massima trasparenza ed entrare in possesso di tutti i dettagli di queste operazioni. Terzo, la leva deve essere fortemente depotenziata ed una “Basilea III” per la finanza derivata deve fissare una regola simile a quella dell’8 percento, ma più severa per chi si espone al rischio di queste operazioni. Chi vuole giocare d’azzardo lo faccia pure ma in condizioni di assoluta trasparenza verso i regolatori e i clienti e solo se ha i requisiti patrimoniali necessari per coprire le eventuali perdite. Quarto, la Mifid non basta ad assicurare i clienti che pongono in essere queste operazioni. I regolatori devono creare un albo di esperti indipendenti, di “sminatori” (esperti in pricing dei derivati) che possano affiancare i clienti al momento dell’acquisto del prodotto per valutare la congruità del pricing e l’effettiva natura dello strumento (se il cliente vuole coprirsi dal rischio non deve essere messo nella posizione di chi vende il rischio, ovvero se vuole essere assicurato non deve diventare assicuratore).
Queste soluzioni possono darci delle buone garanzie per il futuro ma non risolvono i problemi del presente. Ancora dobbiamo capire quali e quante perdite i giocatori al tavolo hanno accumulato e come è possibile un’operazione di clearing multilaterale che consenta di ripulire gran parte di esse e di ripartire. Il Tesoro americano non può salvare tutti e far fallire molte di queste aziende può essere l’unica soluzione possibile.
Alcune note di commento più generale. La crisi sancisce il fallimento di un modello di eccessi che per anni era stato propagandato come il sistema all’avanguardia mondiale.
Quello che sta accadendo oggi non è soltanto il crac finanziario più importante dell’ultimo secolo ma anche il fallimento epocale di un modello economico, aziendale ed antropologico. Non c’è affatto da meravigliarsi di quanto raccontato sinora: sono i frutti degeneri di quella stessa cultura che spinge la madre di Britney Spears a cercare fortuna pubblicando un libro di memorie nel quale racconta i lati più scabrosi della figlia famosa popstar.
Da tempo come economisti denunciamo il riduzionismo di coloro che ritengono che non possano esistere che imprese che massimizzano il profitto e individui che massimizzano il loro interesse individuale, il reddito e il loro livello di consumi, mettendo in rilievo i tanti esempi di imprese sane che danno il giusto valore al profitto ma non lo considerano un assoluto o sono mosse da importanti valori sociali ed ideali. Da tempo evidenziamo come il riduzionismo economicista, con il suo sguardo avvilente, abbia costruito un modello artificiale di persona che per gli psicologi è un caso patologico, un paziente da curare che elimina due componenti insopprimibili dell’agire umano quali la passione per l’altro e l’impegno morale.
E’ arrivato il momento di affermare che il paradigma del riduzionismo economicista va assolutamente capovolto. La storia dell’economia moderna, nella quale gli strumenti per fare e farsi male sono sempre più potenti, è l’impresa che assolutizza la performance a breve creando tensioni su tutta la struttura, ponendosi traguardi di crescita degli utili del 30 40 percento, ad essere insostenibile. Insostenibile perché l’assolutizzazione di questo principio in un contesto di asimmetrie informative spinge a generare quei comportamenti distruttivi che mettono a rischio la sopravvivenza dell’azienda.
Che dire del nostro paese ? Antiquato, arretrato con un sistema bancario spesso deriso ma che in realtà ha saputo prendere il buono della nuova cultura (crescita dimensionale e giusta attenzione all’efficienza) non esasperandone gli elementi distruttivi. Qualche tempo fa l’elogio del Financial Times al sistema bancario italiano faceva capire che il vento era mutato.
Qualcosa nel sangue dei nostri banchieri, pure lusingati come tutti dalla modernità scintillante dei nuovi strumenti finanziari e del loro uso spregiudicato, deve averli trattenuti dal cadere nella trappola.
Ci siamo salvati perché abbiamo gli anticorpi giusti, quelli di una cultura solidarista, cooperativa (sia a destra che a sinistra), figlia delle radici cristiane, che ci ha fatto storcere il naso con sospetto di fronte alle manifestazioni più paradossali e ridicole delle magnifiche sorti progressive.
Dobbiamo avere la consapevolezza che in questo momento il modello culturale siamo noi ed essere all’altezza della situazione. L’economia nella quale l’impresa è innanzitutto una comunità di persone, la banca è al servizio dell’economia reale, il mercato è luogo nel quale elementi di dono e di gratuità affiancano quelli necessari del contratto l’abbiamo inventata noi.
La responsabilità sociale d’impresa, la grande scoperta della cultura anglosassone che cerca di emendarsi comprendendo i propri eccessi, riconoscendo che la dittatura degli azionisti rischia di danneggiare tutti gli altri portatori d’interesse, si riallaccia ad un pensiero ed un’opera già feconda in Italia ed in Europa che ha visto nascere molto tempo fa il movimento cooperativo e modelli di imprese profit illuminate e ha prodotto personaggi come Olivetti.
Dobbiamo riscoprire e valorizzare con forza queste origini, riattingere ai grandi patrimoni non solo di pensiero ma anche di iniziative realizzate ed operanti. Le banche popolari ed i crediti cooperativi, presenti in maniera capillare sul nostro territorio, devono riscoprire le ricchissime radici della loro ispirazione. Pionieri come Banca Etica devono continuare ad essere elemento di fermento e laboratorio di innovazione per la creazione di valore economico socialmente ed ambientalmente sostenibile.