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Non è passato molto tempo dal crac della Parmalat e della Enron che nuovi gravi problemi stanno attraversando il mondo della finanza. In Italia i membri del consiglio d’amministrazione di un primario istituto di credito sono stati multati dalla CONSOB per aver venduto strumenti di finanza derivata ad imprese ed amministrazioni locali senza la dovuta informazione.

Come è noto i derivati hanno due funzioni: quella di assicurazione da rischi finanziari (hedging) e quella di scommessa sulla dinamica di qualche variabile economica (speculation). Insomma in una compravendita di strumenti di finanza derivata si realizza uno scambio di rischio tra due soggetti dove, in molti casi, un individuo che vuole assicurarsi da un rischio paga qualcosa per chiedere ad un altro di assumersi il rischio in questione.
Il problema nell’episodio sopra citato è che gli intermediari che hanno venduto lo strumento di finanza derivata hanno fatto capire a chi lo acquistava che la sua posizione era quella di chi si assicurava dal rischio mentre le cose non stavano propriamente così e, al cambiare dello scenario economico, l’acquirente si è trovato con forti passivi.
Dall’altra parte dell’oceano scoppia lo scandalo dei mutui subprime. Anche qui le buone intenzioni non bastano. I mutui subprime sono strumenti finanziari con i quali le banche hanno potuto concedere mutui ipotecari a persone poco abbienti garantendo gli stessi con il valore della parte di immobile acquistato non gravata dal mutuo.
Con il successo del microcredito abbiamo imparato che una nuova dimensione meritoria d’impegno degli istituti creditizi è quello del prestito ai non bancabili. La crisi dei mutui subprime ci ha insegnato che il valore etico di quest’iniziativa non consente nella semplice erogazione di un credito ma nell’assicurarsi che chi lo riceve abbia la possibilità di ripagarlo. Pertanto c’è un’enorme differenza tra il gioco d’azzardo di chi sa che la solvibilità del mutuo (subprime) erogato è fondata su una scommessa molto rischiosa (la previsione che i prezzi delle case, nonostante la bolla speculativa creatasi, sarebbero continuati a crescere) e chi (come le istituzioni di microfinanza di successo) presta ad individui sulla soglia di povertà costruendo reti di prossimità, facendo attività di formazione e di monitoraggio costante dei progetti ed ottenendo come risultato un tasso di sofferenze sul totale dei prestiti erogati attorno al 2-3 percento (inferiore alla media di sistema per i prestiti tradizionali).
 
Il fatto grave è che una crisi o uno scandalo finanziario è un “male pubblico”, ovvero un evento che genera una crisi di fiducia generalizzata con ripercussioni negative anche su istituti di credito non responsabili dell’evento stesso. Le banche lo sanno bene e stanno cercando di recuperare terreno sottolineando il loro impegno in termini di responsabilità sociale con campagne ed iniziative ma, inevitabilmente, ogni nuovo fatto negativo, vanifica gli sforzi prestati. E la mancanza di fiducia incide negativamente sulla performance stessa degli intermediari finanziari (non solo in forme clamorose le code agli sportelli della Nortern Rock per ritirare i risparmi ma anche, in forma meno eclatante, con il ridotto successo del secondo pilastro della previdenza e con la limitata adesione ai fondi pensione).
 
Una seria inversione di rotta e il ristabilimento di un grado di fiducia accettabile nel sistema bancario non avverà se non si riconosce che alla radice del problema ci sono due difetti fondamentali.
Il primo è che la causa profonda degli scandali e delle crisi è iscritta nella priorità di valori delle banche stesse. Il focus sulla massimizzazione dei profitti (i profitti sono un valore importante ma non possono essere in cima alla scala quando entrano in contrasto con il bene della persona), vincolo insormontabile per gli istituti quotati, subordina la soddisfazione di ogni altro portatore d’interesse (i clienti, i dipendenti, le comunità locali, ecc.) a quello degli azionisti. E la pressione cui sono sottoposti i quadri bancari nella realizzazione degli obiettivi di crescita di breve finisce per creare conflitti d’interesse con i clienti che sono all’origine delle crisi (se, come dipendente bancario, devo assolutamente raggiungere gli obiettivi quantitativi prefissati posso chiudere un occhio di fronte al fatto che, per migliorare il bilancio di una banca, vendo prodotti molto rischiosi ai clienti).
Il secondo è l’illusione secondo la quale basta trovare le regole giuste per superare conflitti d’interesse e comportamenti opportunistici. Un sottoprodotto di questo secondo difetto è l’idea che pagando di più  e legando una quota di remunerazione alla performance si garantisca l’allineamento dei manager e dei dipendenti all’interesse dell’azienda (ancora purtroppo quello angusto e limitato degli azionisti). Quando numerosi studi scientifici (e la storia di crac come quelli della Enron) dimostrano ormai che salari eccessivi distruggono le motivazioni intrinseche e la moralità dei manager e che incentivi alla performance fondati su criteri quantitativi (come le stock option legate alla crescita del valore delle azioni) sono un potente incentivo alla manipolazione degli indicatori su cui il premio di performance è parametrato.
 
Se non si rimuovono questi due difetti fondamentali i problemi continueranno. Dobbiamo tornare a puntare anche sui valori delle persone e delle istituzioni senza i quali la qualità delle regole rappresenta un surrogato insufficiente.
La nascita di nuove istituzioni finanziarie con scale di priorità diverse, esplicitamente definite nella governance e nelle regole di tali istituti (i microcrediti le banche etiche), sono un segno di speranza. Se i risparmiatori si accorgessero (per i motivi spiegati sopra) che queste istituzioni sono anche intrinsecamente più sicure oltre che maggiormente orientate al bene comune potrebbero dare un’importante mano alla diffusione di un sistema finanziario diverso in grado di orientare le enormi risorse a disposizione al servizio della persona. 
 
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