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Sono sempre più convinto che il problema della responsabilità sociale in finanza non si può risolvere soltanto con la razionalità. È necessario andare più in profondo alle radici filosofiche e alla struttura delle nostre preferenze in una società nella quale la volontà di potenza è un fattore dominante.
rnIl settore degli intermediari finanziari, principalmente nel mondo anglosassone ma non solo, sembra essere pervaso da una pulsione autodistruttiva che ha portato al collasso alcune delle maggiori banche d’affari mondiali e fatto fallire tecnicamente un gran numero di banche commerciali che avevano spostato il baricentro della loro attività dal credito alla finanza.

Il virus che ha generato quest’istinto è la smania di massimizzare il valore dell’azionista a breve termine. Questo virus, in assenza di contrappesi nelle istituzioni e nelle forze sindacali (che rimanendo nazionali hanno visto ridurre sensibilmente il loro potere contrattuale di fronte a imprese che si muovono su scala globale) si è potuto diffondere senza essere contrastato dai necessari anticorpi. È stato poi aiutato nella sua espansione dall’opacità e dalla difficoltà di misurare il rischio. Nei bilanci mirabolanti delle grandi banche d’affari americane pre-crisi comparivano soltanto i profitti mentre il fatto che tali profitti venissero realizzati a costo di aumenti di rischio elevatissimi sfuggiva a molti in presenza di regole di accantonamento contabile inevitabilmente imperfette (in finanza come in economia non esistono pasti gratis, se il rendimento aumenta aumentano anche i rischi).
La razionalità non basta a spiegare quello che è successo e che continua a succedere. Numerosi studi dimostrano chiaramente che le imprese più socialmente responsabili corrono meno rischi e sono più capaci di creare valore nel tempo in modo sostenibile. Per almeno cinque motivi:

– la responsabilità sociale stimola le motivazioni intrinseche e la produttività dei dipendenti;
– minimizza i costi di transazione con i portatori d’interesse riducendo i rischi di cause legali;
– conquista i consensi dei consumatori/risparmiatori socialmente responsabili disposti anche a pagare qualcosa in più per il valore sociale/ambientale del prodotto;
– può generare vantaggi competitivi quando anticipa cambiamenti regolamentari (ad esempio nel settore dell’efficienza energetica).
– è fattore chiave della reputazione dell’impresa.

Numerosi sono ormai gli studi empirici che suffragano queste ipotesi. Per citarne uno soltanto, lo studioso Minor* dimostra nel 2009, su un campione di 184 notizie di ritiro di prodotti dal mercato, che le più grandi imprese quotate americane con una buona reputazione di responsabilità sociale hanno minori conseguenze negative in borsa risparmiando circa 600 milioni di dollari a testa. Il motivo, spiega l’autore, è che gli investitori attribuiscono relativamente alle cause dell’incidente una maggiore probabilità alla casualità piuttosto che alla negligenza dell’impresa quando la stessa si è dimostrata nel tempo affidabile dal punto di vista sociale ed ambientale.
Eppure l’impazzimento della scala di valori continua e, nel capovolgimento dei mezzi con i fini, variabili assolutamente strumentali diventano criteri assoluti di riferimento per l’azione. In un recente report su una grande banca italiana si dice che, per convincere gli investitori della validità del suo modello è necessario ridurre ulteriormente il cost/income per portarlo verso livelli simili a quelli delle banche d’affari americane. Se assolutizziamo il criterio del cost/income e lo trasformiamo in un fine ultimo allora possiamo anche dire che le imprese modello sono state storicamente le piantagioni degli spagnoli a Cuba dove i lavoratori/schiavi erano soltanto sfamati, i costi ridotti all’osso e tutto il valore della filiera estratto ed esportato.

Il mantra di oggi sembra essere che dobbiamo rendere le imprese sempre più efficienti, svuotandole di dipendenti; se però facciamo lo stesso in tutti i settori i dipendenti in esubero che fine fanno? E con quali criteri si ridistribuisce il valore tra i pochi che restano in azienda e sono costretti a fare i salti mortali per mantenere quei livelli di produttività e i molti che non trovano occupazione? Basterà la carità compassionevole del top management (che riceve remunerazioni cento volte superiori a quelle dei pur fortunati dipendenti di livello più basso che hanno ancora il loro posto) ad evitare la protesta contro l’iniquità distributiva dei più? Insomma le aziende esistono per soddisfare le capacità creative e per valorizzare la fatica e il sudore delle persone o le (poche) persone che restano in azienda esistono per l’azienda?
Se gli studi dimostrano ormai diffusamente che la scelta di responsabilità sociale rende le imprese più solide ed affidabili, anche se con meno sprint nel breve periodo, perché continuiamo a vedere, soprattutto nel settore bancario-finanziario, solo organizzazioni la cui sopravvivenza è messa a rischio dal comportamento dei singoli al loro interno (da Parmalat, a Societè Generale, alla Lehman fino a tutte le grandi banche che ancora oggi hanno rapporti tra attività di dubbio valore e patrimonio di vigilanza al di sopra dei livelli di guardia)? La risposta non può essere data razionalmente ma sta nella sempre maggiore volontà di potenza che pervade la nostra società rischiando di portarla all’autodistruzione. Provate a chiedere a un campione di individui se preferiscono guidare in un centro abitato un bolide di formula uno con il vincolo di non dover scendere sotto i 100 all’ora e con la possibilità di passare anche con i semafori rossi o un’utilitaria rispettando le regole e non potendo superare i 120 all’ora. Molti vi risponderanno che preferiscono la prima opzione. Anche se i passeggeri a bordo che hanno a cuore la loro incolumità saranno sicuramente di parere opposto.

* D. Minor. Corporate Social Responsibility as Reputation Insurance: Theory and Evidence. Working Paper. UC Berkeley, 2009.

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