Come è diventato noto ai più dopo la crisi finanziaria globale ciò che conta non è solo il debito pubblico ma la somma tra questo e i debiti di imprese e famiglie. Se consideriamo queste ultime voci l’Italia recupera grazie a livelli e distribuzione della ricchezza molto elevati. Abbiamo accumulato questo piccolo tesoro (che 10 anni di crescita leggermente negativa del reddito pro capite stanno seriamente intaccando) grazie alla quota molto elevata di proprietari di prima casa e al costo modestissimo di scuola e sanità. Per questo motivo, a parità di reddito nominale, nelle tasche di un cittadino italiano resta molto di più dopo aver pagato tasse scuola e sanità rispetto ad esempio ad un cittadino degli Stati Uniti per il quale l’assicurazione sanitaria può costare fino a 2000 euro al mese e iscrivere un figlio all’università pubblica più di 15000 euro.
Viste queste caratteristiche (elevato debito pubblico e significativa ricchezza privata) è venuta da alcuni la proposta di un’imposta patrimoniale. Giuliano Amato (il premier del prelievo forzoso sui depositi ai tempi della grande crisi e della finanziaria “lacrime e sangue” del 1992 dopo la crisi della lira) propone radicalmente di rateizzare in tre anni il pagamento di 30.000 euro per il terzo più ricco degli italiani in modo da ridurre di un terzo il nostro debito. Le ragioni della patrimoniale sono le seguenti. Se in Italia c’è ricchezza privata e debito pubblico e se il macigno del debito ci impone di pagare ogni anno quasi 80 miliardi di euro in spese per interessi, tagliare il debito di un terzo libererebbe qualcosa di meno di 27 miliardi di euro ogni anno. Si potrebbero usare in misure per rilanciare la crescita (ad es. ridurre la tassazione sul lavoro delle imprese) e per riportare le spese sociali ai livelli del 2008 da quando sono stati sottratti 2 miliardi ai vari fondi (infanzia, famiglie, non autosufficienza, ecc.) che garantivano servizi sociali essenziali alle fasce più deboli della popolazione.
Le obiezioni alla patrimoniale (proposta in forme diverse anche da Capaldo) sono legate a due questioni principali: il rischio di distorsione del prelievo e il disincentivo al rigore nel controllo delle spese che esso genererebbe. Sul primo punto come sappiamo l’evasione fiscale (quasi 100 miliardi ogni anno) genera ogni anno una classifica assolutamente distorta del reddito degli italiani (in cima i dipendenti pubblici e i pensionati mentre molti proprietari di impresa risultano quasi nullatenenti). Intervenire sulla ricchezza supererebbe in parte il problema ma non del tutto vista la maggiore capacità di eludere un’eventuale imposizione da parte di chi ha più capacità di trasferire i propri beni all’estero. Il secondo punto si può far risalire all’argomento ben noto in letteratura secondo il quale il debito è un meccanismo di autodisciplina. In sostanza chi ha a disposizione risorse (vale per i manager di imprese con elevati cash flow come per gli amministratori pubblici che hanno margine di spesa) tende a sprecarle per obiettivi personali che divergono da quelli dell’organizzazione. Livelli di debito più elevati restringono questo margine di libertà e questo rischio di arbitrio.
Per questo studiosi autorevoli del problema del debito propongono interventi a saldo zero che prescindono dalla patrimoniale. Un esempio le idee di Baldassarri che avanza l’ipotesi di tagliare i trasferimenti (spesso inefficaci) alle imprese, mettere un tetto alle spese in consumi intermedi della pubblica amministrazione e utilizzare le risorse per ridurre l’imposizione sul lavoro delle imprese stesse e per introdurre una forma di quoziente familiare.
Proviamo però a pensare al seguente scenario. L’Italia vara una manovra del tipo di quella proposta da Giuliano Amato (o qualcosa di meno) liberando risorse e nello stesso tempo si vincola con legge costituzionale alla tedesca ad un equilibrio nel bilancio. Dichiarando anche il modo in cui utilizzerà le risorse liberate (es. sgravi sul costo del lavoro delle imprese, investimenti in infrastrutture, incentivi per il passaggio alle rinnovabili e per la ristrutturazione degli edifici verso una maggiore efficienza energetica, garanzia dell’effettiva e tempestiva erogazione delle risorse destinate dagli italiani al 5 per mille, ecc.). Non credo che le reazioni dei mercati sarebbero negative di fronte ad una proposta di questo tipo ritenuta credibile.
La storia della finanza pubblica ci dice però che il coraggio per iniziative draconiane nasce soltanto in situazioni particolari in cui si è con le spalle al muro. E’ verissimo che altri modi di uscire dall’impasse sono possibili (ad es. la proposta Baldassarri) ma se continuiamo a non utilizzarle e la nuova disciplina europea di gestione del debito entra in vigore saranno i fatti a spingerci in quella direzione.
Debito pubblico: patrimoniale sì, patrimoniale no
La proposta di nuove regole più severe per la gestione del debito pubblico dei paesi membri dell’UE (multe proporzionali alla componente superiore al 60 percento del rapporto debito/PIL) ha generato un interessante dibattito all’interno del nostro paese su come affrontare il problema di questo pesante macigno che grava sulle nostre teste. Come è noto il nostro paese è secondo solo alla Grecia come rapporto debito/PIL che viaggia attorno al 116 percento. Si tratta di quasi 2000 miliardi di euro che corrispondono grossomodo a 30.000 euro per ciascun italiano.
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