Se vogliamo risolvere in profondità il problema dobbiamo però fare un’analisi approfondita sulle sue cause e sugli insegnamenti da trarre per fondare un modo diverso di fare economia (in un mondo sottosopra lo slogan tradizionale dei social forum diventa lo slogan di Davos!).rn
Il dato da cui partire è che il riduzionismo nella concezione delle forme d’impresa e della strategia che essa deve perseguire, teoria dominante per decenni, appare oggi fortemente in crisi. Il portavoce più noto di questo approccio è Milton Friedman il quale ritiene che l’unico ruolo dei manager nelle imprese debba essere quello di soddisfare le esigenze degli azionisti. Qualunque deviazione da questo comportamento viola il suo mandato fiduciario, genera seri sospetti di spreco e diversione dei flussi di cassa dell’azienda (cash flow waste) e dovrebbe per questo essere perseguibile. Sulla scia di principi simili leggiamo ancora nei principali libri di testo che tutte le imprese hanno come obiettivo quello di massimizzare gli utili. Imprese che partissero da premesse diverse da queste finirebbero per soccombere nell’agone competitivo dei mercati.
Ancora, sulla stessa linea d’onda, durante la crisi sentiamo risuonare da diverse parti il mantra riduzionista che sintetizza la diffidenza culturale nei confronti del mondo della responsabilità sociale d’impresa e dell’economia civile rifacendosi ad una concezione alla Friedman dell’economia.
Prendendo l’esempio di un settore specifico, secondo tale approccio le banche devono essere imprese orientate al profitto il cui unico obbligo sociale è quello di rispettare le regole e assolvere ai loro obblighi fiscali. In caso di comportamento ingannevole nei confronti dei clienti vanno attivati gli opportuni meccanismi sanzionatori. Gli utili tassati consentiranno allo Stato di intervenire a favore dei bisognosi. Ciò che le banche non dovrebbero fare è diventare degli ibridi, un po’ imprese for profit e un po’ imprese sociali al fine di non creare rischi di inefficienza.
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Si tratta di una visione che presenta numerosissime falle. In primo luogo è del tutto evidente che l’efficienza non è un valore primo. Soprattutto quella misurata secondo l’approccio tradizionale della frontiera produttiva (più o meno raffinato) per il quale, all’interno di un determinato settore, quell’impresa che ha il migliore rapporto tra valore del prodotto e costi di produzione rappresenta la frontiera dell’efficienza cui tutte le altre devono tendere. In un mondo di regole perfette potremmo calcolare l’efficienza evitando la contaminazione della stessa con pratiche di scarsa sostenibilità sociale ed ambientale. In realtà in un mondo globale in difetto di governance e di istituzioni globali nessuno ci garantisce che essa sia raggiunta aumentando l’impatto ambientale della produzione (generando più scarti non riciclabili ed aumentando le emissioni inquinanti) o riducendo le tutele dei lavoratori e dei fornitori. Molti affermano che per evitare queste esternalità sociali ed ambientali negative bastano i meccanismi di reputazione. Ma i meccanismi di reputazione sono efficaci soltanto quando le relazioni tra offerta e domanda sono ripetute nel tempo e quando il bene o servizio venduto è definito in gergo “di esperienza”, ovvero è un bene o servizio del quale il consumatore è in grado di accertare le caratteristiche di qualità attraverso una o ripetute fruizioni. Insomma il caso del tassista che fa pagare all’incauto viaggiatore straniero un prezzo spropositato per il trasporto dall’aeroporto al centro città sfugge ai radar dei meccanismi reputazionali e finisce per essere (se usiamo gli indicatori di efficienza sopra citati) la frontiera di efficienza a cui tendere da parte degli altri operatori. Ma non solo. Esistono interi settori come quello della sanità, appunto delle banche e delle imprese alimentari dove l’asimmetria informativa è profonda e la verifica dei clienti è impossibile almeno nel breve periodo. Chi ci garantisce che un prodotto, anche se gradevole al gusto, non sia adulterato o tale da danneggiare la salute? Quanto i pazienti sono in grado di capire da soli l’opportunità di assumere o meno un determinato farmaco prescritto dal dottore oltre che la sua efficacia ? Quanto tempo impiegano i risparmiatori a comprendere le insidie di alcuni prodotti finanziari e quante volte ciò è accaduto provvidenzialmente prima del manifestarsi delle conseguenze negative derivanti dal loro possesso?
Possiamo generalizzare questo problema e definire un vero e proprio principio secondo il quale, in presenza di beni non di esperienza ed asimmetrie informative complesse, la massimizzazione degli utili rischia di diventare una strategia che minaccia il benessere dei consumatori prima di quello di altri portatori d’interesse. Nel caso delle imprese bancarie ciò si traduce tra l‘altro nel ben noto problema dei conflitti d’interesse tra depositanti ed azionisti.
Ancora più a fondo su questo punto, il successo della microfinanza ha dimostrato in questi anni che esiste una vera e propria contraddizione tra “efficienza bancaria” e benefici sociali dell’attività di una banca nonché suo contributo alla creazione di valore economico, alla nascita di nuova imprenditorialità alla realizzazione delle pari opportunità. In parole semplici in un dilemma tra le seguenti due strategie relative all’impiego di un capitale di 500.000 euro: fare un unico prestito o fare mille prestiti di mille euro a mille soggetti non bancabili in cerca di credito per uscire dalle loro condizioni di povertà, il criterio di efficienza predilige con chiarezza la prima scelta. E’ del tutto ovvio infatti che i costi di una sola istruttoria del fido e lo screening dei clienti su una cifra di 500.000 euro richiedono spese e dispendio di risorse umane molto inferiori rispetto al dover sostenere 1.000 istruttorie e a dover moltiplicare l’attività di screening.
Relativamente al problema delle forme organizzative d’impresa, il mantra riduzionista sembra indicare l’ottimalità della convergenza verso un’unica forma dominante: quella della banca quotata in borsa che massimizza gli utili (tendendo a percepire tutto il resto come forme ibride). Eppure la biodiversità bancaria si è rivelata essenziale e pure salutare mai come in questo momento di crisi finanziaria globale. Come mai si osserva oggi una precisa correlazione inversa tra adesione al modello riduzionista e coinvolgimento nella crisi finanziaria con gravi rischi per la sopravvivenza dell’istituzione bancaria stessa? La risposta è molto semplice: la progressiva compressione dei margini di utile sull’attività tradizionale della banca (i prestiti alla clientela) e la parallela pressione degli azionisti ad una crescita dei rendimenti dei loro titoli ha spinto il modello dominante di banca verso attività, come quella dell’intermediazione di titoli derivati o dell’inserimento di prodotti cartolarizzati nei loro portafogli, a maggiore rendimento. Cadendo inconsapevolmente o consapevolmente nell’illusione che le stesse attività non contenessero rischi altrettanto maggiori.
Ma la credenza più radicale da confutare, tipica del mantra riduzionista, è l’illusione che i problemi della crisi dipendano soltanto dall’assenza o dai limiti di regole che possono essere migliorate, fino a trovare quelle ottimali in grado di scongiurare possibili catastrofi future. Il problema invece è che non esistono né esisteranno mai regole ed istituzioni perfette tali da esonerarci dalle nostre responsabilità (ovvero, in presenza di difetti strutturali ineliminabili di governance né la mano invisibile ne l’intervento pubblico sono e saranno mai in grado di trasformare l’avidità individuale in bene pubblico).
Tutto questo testimonia una volta di più che il mercato per poter funzionare efficacemente ha bisogno di diversità organizzativa. E che l’economia civile (cooperative sociali, credito cooperativo, banca Etica, commercio equo e solidale, microcredito..) non ha solo un ruolo marginale e residuale di ammortizzatore sociale in quanto possiede ed alimenta in sé quegli anticorpi di responsabilità, solidarietà e fiducia interpersonale, progressivamente erosi e gravemente depauperati in questa crisi, di cui il sistema economico ha assolutamente bisogno per evitare il collasso.