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L’azione del governo Monti è stata senz’altro decisiva sino ad oggi per la riduzione delle tensioni sul debito pubblico. La sostenibilità del debito era seriamente a rischio a causa delle tensioni sul costo del rifinaziamento dei titoli di stato sul mercato secondario che avrebbero potuto nel tempo rendere l’onere del pagamento degli interessi sui titoli pubblici insostenibile. Il governo è intervenuto energicamente creando un significativo avanzo primario e invertendo le aspettative dei mercati anche relativamente alla futura capacità di far ripartire il paese.

Le tensioni sul mercato secondario si sono progressivamente attenuate anche se la seconda parte di quanto promesso (la ripresa) richiede tempo per realizzarsi e le previsioni per il prossimo anno sono ancora fosche (tra il -1,6 e il 2,2 percento). Difficile qui segnare un successo e solo i prossimi mesi potranno dirci se il governo riuscirà. L’intento è quello di raccogliere altre risorse dalla lotta all’evasione e dalla riduzione della spesa pubblica evitando la mannaia indiscriminata dei tagli lineari (spending review) per destinarle ad iniziative volte al rilancio dell’economia: investimenti in infrastrutture e sgravi fiscali per aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e ridurre il costo del lavoro per le imprese. Ciò che ha reso tutto sommato sopportabile l’amara medicina somministrata agli italiani è stata la determinatezza inusuale nel combattere l’evasione e la decisione di spalmare i sacrifici su tutti i ceti sociali (anche se è innegabile che comunque per quelli medio-bassi i sacrifici hanno pesato e peseranno sicuramente di più).
È in corso proprio in questi giorni la trattativa tra governo, parti sindacali e confindustria sulla cosiddetta fase due che si pone l’obiettivo attraverso riforme del mercato del lavoro di rilanciare l’occupazione nel paese. Nell’analizzare questa fase è opportuno ricordare che la crisi parte da molto lontano e non dipende dalla forma di contratto di lavoro. I due elementi di sfondo che hanno messo in difficoltà la produzione sul nostro territorio geografico sono senz’altro la concorrenza di paesi con costi del lavoro molto più bassi (e spesso, come nel caso di Cina ed India, di forza lavoro molto qualificata competitiva rispetto alla nostra) e l’impossibilità di utilizzare la valvola di sfogo della svalutazione competitiva per compensare le nostre ataviche debolezze. Il fatto che nel corso degli ultimi dieci anni l’Italia sia stato l’ultimo tra i 27 paesi UE come tasso di crescita medio annuo del reddito pro capite (e l’unico con un tasso negativo) ci dice però che siamo riusciti a fare peggio anche di altri paesi europei che come noi sono sotto il pungolo della competizione globale. La via per uscirne è senz’altro quella di puntare su fattori competitivi non delocalizzabili, ovvero di non puntare su gamme di prodotto e su settori nei quali il costo del lavoro ha un peso decisivo. Per realizzare questo obiettivo bisogna migliorare qualità e capacità di accesso ai mercati esteri, colmare il gap che abbiamo accumulato nel settore delle tecnologie digitali (siamo al 75simo posto come velocità di connessione ad Internet), ridurre i costi dei sevizi alle imprese e rendere più efficiente la giustizia civile. Non dobbiamo inoltre dimenticare che il nostro paese è ricco di fattori produttivi non delocalizzabili quali i valori paesaggistici, artistici e storici del nostro territorio oltre che i tanti prodotti alimentari tipici. Valorizzare queste ricchezze che nessuna delocalizzazione ci potrà sottrarre avrà dunque importanza fondamentale. Infine non dimentichiamo che quasi il 30 percento del valore economico creato nelle economie post-industriali è dato dai servizi alla persona (tra cui istruzione e sanità) anche in questo caso difficilmente delocalizzabili.

È bene infine che questo governo concentrato sul tema delle riforme del mercato del lavoro e che vuole chiudere l’agenzia delle Onlus come se fosse un ente inutile non pecchi di archeologia economica e capisca che la sussidiarietà e il terzo settore sono una risorsa fondamentale che consente di sostituire spesa pubblica con azione dal basso della società civile aumentando benessere e soddisfazione di vita, riducendo costi e creando occupazione. E che capisca che l’economia civile che vuole puntare a una creazione di valore sostenibile a livello socialmente ed ambientale attraverso responsabilità sociale d’impresa, servizi sociali, energie pulite e banche di prossimità e non speculative rappresenta una carta fondamentale per la ripresa del paese.

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