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Muore o non muore? Le comunità politiche e quelle economiche sono in apprensione, anche se con aspettative differenti: alcune sperando che torni a dominare la scena e a determinare le sorti degli uomini e della loro vita; altre attendendo la sua definitiva scomparsa. Il capitalismo ha avuto una vita decisamente lunga; per tanto tempo l’ha fatta da padrone determinando la natura stessa dell’economia, i suoi modelli di sviluppo, le sue crisi.

Ed è assurto a così alto potere da occupare nell’ordine delle cose la posizione di “fine”, promuovendosi dalla condizione ‘ancillare’ di ‘mezzo’. La storia dell’economia e la stessa storia dell’Occidente degli ultimi tre secoli si è sviluppata intorno alle vicende del capitalismo, determinandone date e modelli, fortune e sventure, esaltazioni messianiche e depressioni miserabili. Il tracciato storico del capitalismo è troppo conosciuto e felicemente o infelicemente sperimentato per essere qui ripercorso. Si pone soltanto il problema della sua continuità o della sua scomparsa, della sua sostituzione o della sua trasformazione. La ricchezza delle nazioni di Adam Smith iniziò la sistematizzazione di un processo che affondava le sue radici nei decenni precedenti e che trovava nell’inizio del liberalismo la sua data di nascita. Lo sviluppo delle libertà e il ‘culto’ della proprietà privata segnarono i connotati del capitalismo e, contemporaneamente, cominciarono a delinearsi i tratti della economia politica. Da quel momento tutti i cultori della disciplina dovettero fare i conti con Smith, modulando, in base ai tempi e ai luoghi, le varianti dell’economia e del capitalismo stesso. Sembrava, e per alcuni sembra ancora oggi, che di esso non si potesse fare a meno. In certi momenti e in certi Paesi, assunse l’aggettivazione liberista, che concorse a portare alle estreme conseguenze l’individualismo dell’economia: gli USA sotto la presidenza di Regan e dei due Bush e l’Inghilterra sotto la Thatcher sono gli esempi più evidenti e recenti della pratica estremista del capitalismo. Il papa Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus, denunciò i limiti del comunismo, ma nel riconoscere alcuni meriti del capitalismo, ne condannò le conseguenze di sfruttamento e di disuguaglianze che esso produceva. Il sistema capitalistico in realtà era fondato e creava insieme disuguaglianza, in nome della libertà di impresa e del corollario dell’accumulo di ricchezza, il capitale appunto. La libertà e l’affermazione dei diritti furono i presupposti della democrazia, che però non riuscì a inglobare pienamente l’esigenza della uguaglianza, che la Rivoluzione francese aveva proclamato simultaneamente insieme alla libertà e alla fraternità. Da questo punto di vista, parlare di capitalismo democratico è un evidente ossimoro. La crisi economico-finanziaria dei nostri tempi non ha fatto che evidenziare ulteriormente la incapacità del capitalismo di rispondere ai bisogni della totalità delle popolazioni. Il ricorso affannoso degli economisti a tentare ogni sorta di cambiamento per lasciare, alla fine, tutto come prima, rischia di divenire penoso e inconcludente. Negli uffici dell’U.E. come tra le montagne svizzere di Davos è un susseguirsi di formule e di ricette, che alla fine lasceranno le cose come prima: i ricchi manterranno i loro averi e i poveri continueranno “ad essere sempre tra noi”. La “fine delle narrazioni” (Lyotard) che sta caratterizzando la nostra epoca ha registrato la caduta dei miti ideologici che hanno fatto la storia degli ultimi tre secoli. La ‘narrazione’ del capitalismo sembra resistere, rifugiandosi anche nella grande Cina, rimasta orfana dell’altra ‘narrazione’, il comunismo. Ma fino a quando? Qualcuno dice che è solo una questione di regole: bisognerebbe cambiarle! Queste possono modificarne alcune performance, ‘licenziare’ alcuni soggetti-protagonisti, impedire eccessi e consentire una redistribuzione di risorse un po’ più equa…conservando però il capitalismo. Forse non c’è ancora un modello economico che prenda il posto del capitalismo, ma se ne avverte l’esigenza e ne viene invocato l’avvento. I movimenti degli indignados del mondo e la ‘rabbia’ dei poveri premono per una società più giusta dove i governi “non si comprano con i denari” (Stiglitz). Il bene comune non è un bene da distribuire ‘benevolmente’. Esso è invece una relazione di persone tra persone, nell’ambito di un rapporto ‘pacificato’ con il Pianeta. Non si sa se Amartya Sen con la sua “libertà individuale intesa come impegno sociale”, Muhammad Yunus con il suo microcredito, Serge Latouche con la sua “decrescita”, Stefano Zamagni con l’economia civile siano i ‘profeti’ di un’economia fuori dal capitalismo, ma, con pochi altri, forse stanno iniziando a intonare il De profundis per un capitalismo ormai allo stremo.

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