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Gli episodi di violenza contro donne e immigrati che in queste ultime settimane si sono ripetuti con frequenza in alcune città italiane (Guidonia, Cassano Ionico, Nettuno, …) hanno riacceso il dibattito sulle ragioni che spingono tante persone, spesso giovani e talora minorenni, a compiere gesti di barbarie, stuprando una ragazza, o cospargendo di benzina un immigrato indiano all’interno di una stazione ferroviaria, trasformandolo in una torcia umana.

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Motivare questi atti di incivile sopraffazione attribuendoli ora alla noia, ora al culto della violenza, ora al bisogno di divertimento e di emozioni forti, è forse il segnale più eloquente del profondo vuoto morale che caratterizza la nostra società. Sarebbe tuttavia troppo comodo scaricare soltanto sulle nuove generazioni quelle responsabilità che invece sono proprie della famiglia, della scuola e delle stesse forze politiche.

Il Presidente Napolitano ha fatto bene a sollecitare le istituzioni a reagire contro questi episodi raccapriccianti e intollerabili di violenza e di xenofobia. Si è infatti creato nel nostro Paese un preoccupante clima di legittimazione che finisce per far sentire orgogliosi gli stessi artefici delle discriminazioni. Contro di essi, poi, si minaccia di essere ancora più “cattivi” finendo per avvitarsi in una spirale inconcludente senza sbocchi ri-educativi. Non si può puntare tutto sulla repressione promettendo di costruire nuove carceri. Occorre il metodo della prevenzione che, come ha insegnato Don Bosco, è il cuore si ogni vera educazione.

Ciò che vogliamo dire è che nel nostro Paese, oltre alla crisi della fede cristiana, si registra ormai una crisi dei valori etici del patrimonio cristiano. Dopo il divorzio, l’aborto e l’eutanasia (vedi i sondaggi) stanno crollando anche le cosiddette virtù civiche del buon cristiano e onesto cittadino.

Ha ragione Miriam Mafai quando su Repubblica sottolinea acutamente come l’attuale cultura di violenza «disprezza e irride alla mitezza, alla pazienza, alla solidarietà, alla debolezza, alla sobrietà». Cioè a quelli che fino ad oggi sono valori propri della tradizione cristiana.

Dobbiamo allora avere il coraggio di dire che la cultura leghista, una volta portata al governo, è riuscita a diventare egemone nel nostro Paese diffondendo paura per il diverso e bisogno di sicurezza. Lo si è visto, ad esempio, con la moda delle “ronde”, nelle città, con la sceneggiata delle impronte ai bambini rom, con la mozione del leghista Cota sulle classi separate a scuola, con la drammatizzazione del Centro di accoglienza a Lampedusa.

Razzismo? Culto della violenza? Assenza di valori? Nichilismo? Forse bisogna evitare di racchiudere in una sola categoria omnicomprensiva la spiegazione di tanti episodi criminali eppure così diversi. L’uomo di oggi sembra divertirsi soprattutto quando raggiunge un piacere attraverso la trasgressione delle regole e l’esercizio della propria forza su un soggetto più debole (dallo zingaro al disabile, dalla donna allo straniero).

Piuttosto che di razzismo e di xenofobia si dovrebbe forse parlare di una società che non possiede più le coordinate culturali per convivere con l’alterità, poiché priva di un’antropologia della differenza. Questo fa capire la centralità della questione educativa come questione dell’alterità e non solo delle radici dell’identità. Voglio dire che per rispondere alla nuova domanda di convivenza e di etica sociale nelle nostre città dobbiamo partire dall’altro, dalla differenza, dalla relazione e non semplicemente dall’io. Anche all’interno della tradizione cristiana andrebbe rafforzata l’antropologia della relazione più che quella dell’identità che rischia di farci restare prigionieri dell’individualismo e anzi di radicalizzarlo.

Se così stanno le cose vuol dire che l’Italia ha bisogno di una svolta culturale, di una rinascita morale, di una riforma istituzionale, insomma di tornare ad avere una prospettiva di futuro. Ciò significa concretamente educare i cittadini, vecchi e nuovi, a scoprire che le radici comuni non stanno nel passato di ciascuno (che divide), ma nel futuro che ci accomuna.

Dobbiamo ri-educarci alla cittadinanza plurale e interetnica, per capire che abbiamo tutti diritto al futuro e ad un destino comune. Non si tratta soltanto di metterci a recuperare una memoria ormai perduta, ma soprattutto di guardare avanti cercando di lavorare per un “sogno condiviso”, per una storia comune da costruire tutti insieme. Questo non significa fare riferimento ad una utopia irrealizzabile. L’elezione di Obama in America ha dimostrato che il desiderio di novità e la speranza dei cittadini è più forte di ogni realismo. Anche in Italia si potrà uscire insieme da questo clima di imbarbarimento e di insopportabile lamentazione soltanto se avremo il coraggio di operare questa svolta.

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