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Questo articolo è stato pubblicato su piùvoce.net il 9 febbraio
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rnUdine è una città serena. Taciturna. Come taciturni sono i friulani. Più dediti ai fatti che alle parole. Per questo mi fa un certo effetto vedere il nome di questa città dura e timida, simbolo della terra dove sono nato, campeggiare come mai prima d’ora sulle prime pagine dei giornali.

Mi fa effetto perché sono sicuro che al friulano la cosa dia un certo fastidio, geloso com’è della sua terra, della sua lingua, della sua vita riservata e poco incline all’apparire.

Udine è una città a misura d’uomo, posta ai piedi delle Alpi friulane, città di frontiera, che apre la strada verso l’Austria e l’Oriente slavo. E’ terra abituata alle invasioni quella friulana, a vedersi radere al suolo le case e poi a ricostruirle. E in questi giorni, in cui Udine è diventata il centro dell’attenzione mediatica, mi sembra di sentire un grido di dolore sordo ed orgoglioso. Quello dei friulani di qualche tempo fa, quello di quei nonni, un tempo giovani, che avevano nel sangue il culto della vita. Ce l’avevano dentro pur nelle sofferenze più atroci, pur nelle situazioni più devastanti come il dover partire per il fronte, o il dover lasciare la propria terra per la troppa povertà.

Davanti a questa dignità, quello che si è compiuto in questi giorni ad Udine in nome della volontà di autodeterminazione dell’uomo, è una ferita che non potrà rimarginarsi facilmente, perché intacca quel patrimonio profondo, anche se a volte inconsapevole, che ha da sempre contraddistinto la terra da cui provengo: la tenace capacità di saper ricostruire davanti alle sofferenze più dolorose.

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